lunedì 30 giugno 2008

La storia siamo noi



L'ultimo post che ho pubblicato ha suscitato pochi commenti, ma vale la pena porne in evidenza due perché toccano dei temi che vanno oltre quelli trattati da me. La risposta di Ermelinda non poteva essere più completa ed efficace.

Primo commento:
uno che era incazzato ha detto...
Il problema non è berlusconi, ma la sinistra italiana che è incapace di essere sinistra. diciamo che è una vergogna questa sinista un po' comunista e un po' di più cattolica. Non si sa cosa sia, forse un altro residuo del clientelismo italiano (vedi rutelli, bassolino o le amministrazioni nelle regioni rosse). Se le cose stanno così, bah allora essere pro berlusconi o pro sinistra per me non fa molta differenza.
21 giugno 2008 14.08

Secondo commento:
Anonimo ha detto...
Più di cinquanta anni fa Brecht, in un prologo ad un suo dramma scriveva: « Vi preghiamo quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. Di nulla sia detto: è naturale in questi tempi di ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile». Accidenti Bertolt Brecht, sicuramente avresti fatto una smorfia di disapprovazione se qualcuno, per questi tuoi versi, ti avesse insignito del titolo di vate della situazione italiana; e non per tua modestia, ma perché ti renderesti conto che in fondo le cose non sono cambiate e che vale ancora quel triste ammonimento del tuo Galileo: «Infelice quel popolo che ha bisogno di eroi!»
Infelice ancor di più la nostra Italia, in cui Berlusconi (che già è tanto) a parte ci si deve sentire degli eroi, di quelli pazzi, don-chisciottiani, che in mezzo a tanta melma pur si recano alle urne per infliggere con la matita (ma proprio fuor di senno costoro!) il colpo finale a…dei mulini a vento. E si perché se destra e sinistra sono ormai uguali, convien che s’abbandoni la furia in favore degli “Orlando che erano furiosi!
Convien sedersi intorno ad una tavola rotonda e compiaciuti verseggiare sulla corruzione – acclarata certo- del nostro(?) Cavaliere capo e dei suoi avversari politici che millantano invece onestà.
Ma poi ci si annoierà pure di queste conversazioni, si sa la regola è sempre banale e poco interessante, e per non intaccare la sacralità del fiero pasto non si farà più nome di politico alcuno.
E a coloro che ci disturberanno con triti discorsi sulla necessità di accollarci la responsabilità di operare comunque una scelta, noi risponderemo così:
“ Le Donne del Cavallier, l’arme, gli amori
Le cortesie, l’audaci imprese noi ignoriamo;
ignoriam pur di Veltron il programma
e di quei muson dei rossi guerrier l’istanza.
Canteremo sol di Madama Santanchè,
è l’unica a non essere ancor demodè.”
Ermelinda
30 giugno 2008 12.02

giovedì 19 giugno 2008

Noi e la controrivoluzione berlusconiana



Col passare degli anni, gli avvenimenti storici che non riuscivamo a decifrare ci risultano improvvisamente chiari, li si riesce a leggere con lucidità. Due anni fa, quando il centro-sinistra di Prodi avevano vinto le elezioni per circa 24.000 voti, nessuno degli elettori di centro-sinistra considerava lontanamente possibile l’ipotesi di un governo-tecnico con la Casa delle libertà finalizzato a riportare il paese alle urne pochi mesi dopo.

Dopo i cinque anni di governo Berlusconi, era troppa la voglia di voltar pagina, di affermare che il berlusconismo aveva ricevuto una sconfitta civile (nelle urne) e non giudiziaria (nelle aule di tribunale). Era troppa la voglia di vedere abrogate le leggi vergogna, di vedere il paese tornare tra il novero dei paesi civili. In realtà nel biennio 2006-08 abbiamo avuto la più deludente delle sorprese che ci si potesse attendere. Fino al 2001 infatti Berlusconi si era limitato a rivolgersi agli umori più nascosti del popolo italiano, andando ad attizzarli e risvegliarli. In questo biennio ci siamo accorti come è riuscito a farli emergere ed ad attribuirgli cittadinanza: non c’è più bisogno di un leader senza pudore che inneggi all’evasione fiscale, alla ritirata dello stato ladrone etc., ora sono gli italiani stessi ad invocare ciò ed a sbeffeggiare chi propone il contrario.

Quando Pasolini, negli anni ’70 dalle pagine del Corriere della sera parlava di un popolo violentato e sfigurato, chissà se si immaginava che si potesse arrivare a tanto. Gli strati economicamente più bassi della popolazione, quelli che noi non riusciamo più neanche ad incontrare se non quando vengono a lavarci la casa o quando gli portiamo la macchina ad aggiustare, proprio loro che per arrivare alla fine del mese avrebbero estremo bisogno della presenza dello stato, di un welfare capace di assicurargli i servizi necessari, di un sistema scolastico che funzioni (unica possibilità di riscatto onesto per i loro figli), applaudono e sostengono un leader che inneggia alla deregulation, allo smantellamento di ogni pur residuo stato sociale ed insultano i 'moralisti' che invece sostengono il contrario.

Un tempo, durante la guerra fredda, le società capitaliste dovevano dimostrare che la loro era una società solidale per non lasciare il proletariato ed il sotto-proletariato in balia di sogni rivoluzionari. Paradossalmente il merito degli stati comunisti è stato quello di rendere migliori gli stati dell’occidente capitalista. Venuta meno questa minaccia non c’è più motivo di un tale investimento, essendo inoltre divenuto il mercato ancor più vorace e competitivo. Noi italiani, poi, ci abbiamo messo del nostro: non solo gli strati più bassi della popolazione sono stati privati dalla storia di un bagaglio ideologico che solo gli permetteva di colmare i limiti culturali e quindi di partecipare alla dialettica sociale e politica, ma lasciati soli in balia degli anni ’80 e ’90 non hanno avuto il tempo di prendere coscienza della loro condizione, ne’ le sinistre hanno avuto modo di ripensarsi e riallacciare quel rapporto. Sono stati subito ammaliati da un altro bagaglio ideologico fatto di edonismo televisivo, retorica anti-statale (e quindi anti-solidale) e un mito del self made man secondo il quale in un orizzonte privo di regole è più facile emergere anche dal nulla. Basti vedere le interviste che, l’indomani della partecipazione di Berlusconi al meeting di Confindustria a Vicenza nel 2006, rilasciavano alcuni operai che dichiaravano di essere suoi elettori perché speravano, un domani, di diventare imprenditori. Inutile dire qual è il fine che chi tesse le fila di questo apparato ideologico si propone…

Nel 2006 ci era sfuggito tutto ciò. Ci era sfuggito che ora voltar pagina non è cosa facile, non basta un governo debole e pochi provvedimenti. Nei giorni immediatamente successivi l’insediamento del governo Prodi quando vedevo persone serie occupare finalmente i banchi del governo, di un governo debolissimo, provavo quasi un senso di disagio. Erano infatti inseriti in un contesto che con loro non c’entrava niente, ed allo stesso tempo così poco legittimati ad operare per invertire le tendenze che vi trovavano. Pensate a Guido Rossi commissario straordinario della Federcalcio: un signore al posto che era stato fino a poco prima di Carraro e Matarrese (tutt’altro che dei signori..); un intellettuale in mezzo ad un mondo anch’esso sfigurato dal denaro e dallo strapotere di gruppo che se ne fregava delle regole; un signore che con tutta probabilità sarebbe stato vissuto come un alieno da quel mondo, mandato lì a tentare di risollevare le sorti del calcio italiano da un governo debolissimo, con una scarsa legittimazione parlamentare ancor prima che popolare.

Ora non ci troviamo più di fronte ad un fidanzamento, prematuro ed adolescenziale tra l’Italia e Berlusconi come nel 2001. Si tratta di un vero e proprio matrimonio, consapevole, maturo, solido. Ecco perché noialtri pretendenti, con un’altra idea di convivenza siamo così frustrati. A questo punto però se ci dovesse essere un divorzio non potrebbe che essere definitivo. Tutto ciò ci appare lontano, ma è nostro compito spiegare alla parte contraente che ci sta più a cuore che ‘questo matrimonio non s’ha da fare’ mai più.

Nel 1975 a proposito dei cambiamenti che il nuovo fascismo stava praticando sul popolo italiano Pasolini scriveva:

era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono divenuti in pochi anni (specie nel centro sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione ad essi), sia al di fuori degli schemi populistici ed umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere[1].

Per me e credo per la mia generazione, nata negli anni ’80 e cresciuta in pieno berlusconismo, condividere questo amore per il popolo è davvero difficile: sempre da esso siamo stati delusi e mai abbiamo potuto ne’ sperare in esso ne’ godere di quella bellezza che Pasolini aveva conosciuto. Forse però per essere dei perenni pretendenti, anche quando nessuno ci considera degni non solo di governare ma anche di vivere in questa nazione, dobbiamo provare continuamente a tenere acceso questo amore. La nostra rabbia, il nostro rancore, in fondo, non sono nient’altro che la voglia di tornare a vivere sotto lo stesso tetto.

L’unica alternativa sarebbe quella di lasciarsi vincere dalla frustrazione e far perire questo amore una volta per tutte; ma, in questo caso, avrebbero davvero vinto loro…



[1] Da “L'articolo delle lucciole”, in Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1990, p. 131

martedì 10 giugno 2008

Radio Aut ed i nostri blogs



Viviamo in un tempo in cui si è perso il senso di ogni impresa collettiva: qualche decennio fa le ideologie soffocavano le individualità, la loro fantasia e la loro creatività; oggi paghiamo lo scotto di esserci liberati oltre che da esse, anche dalla voglia e dalla gioiosità di compiere delle azioni collettive, sapendo porci nel ruolo del gregario. Rinunciare al ruolo del protagonista in nome di un disegno generale che deve compiersi è diverso dal farlo solo nella consapevolezza che nella stessa dinamica di gruppo (in senso lato), in ogni situazione, c’è chi è protagonista e chi no; ragionando in nome dell’individualismo più sfrenato risulta assai difficile accettare che essere protagonisti o essere gregari non significa necessariamente essere migliori o essere peggiori. Al di là della retorica, c’è una dignità in entrambi i ruoli.

Il tutto e subito classico della non-ideologica ideologia consumistica ha poi pervaso anche l’ambito politico-valoriale: le dinamiche, le strategie, le visioni di insieme, insomma l’osservazione consapevole, passa in secondo piano rispetto alle rivendicazioni valoriali. Volendo insomma tirarsi fuori in un sol balzo dall’orizzonte edonistico del proprio tempo, ci si ritrova dentro con entrambi i piedi, innamorati persi delle proprie bellissime idee, pronti a mostrarsi aggressivi e rancorosi per difenderle.

Il blog è talvolta l’emblema di questa crisi: più che un agire politico (un percorso lungo, durante il quale ci si mette continuamente in gioco, non si sta su un piedistallo, ma si è parte tra le parti), è molto meglio un luogo, statico, dove svuotare le proprie idee. Tanto meglio se sono alla rinfusa, poco curate, buttate lì in maniera disattenta.

Quando ho deciso di mettere su questo blog ho subito ripensato alla scena de I cento passi in cui Peppino Impastato ed i suoi amici mettono su Radio Aut ed alle parole che Peppino rivolge al ragazzo che gli fornisce il materiale per iniziare a trasmettere: “a me basta che ci sentono a Cinisi […] quando tira viento, quando c’è il sole, quando c’è pioggia, quando non mi danno il permesso per fare un comizio, quando mi sequestrano il materiale: l’aria non ce la possono sequestrare…”. Quant’è diversa però Radio Aut da un blog: la prima era un’impresa collettiva di un gruppo di amici che la compivano non in nome di un’ideologia, di cose più grandi di loro, ma nel tentativo di combattere le ingiustizie che vivevano sulla loro pelle tutti i giorni (chi ha visto il film ricorderà bene la lite con i frikkettoni e l’occupazione della radio); il secondo rischia di essere pari ad un colpo di tosse: un diversivo del sistema per difendere il proprio, limitatissimo, status quo.

Per questo è importante ricordarsi sempre che ogni parola è un approdo, ma anche una nuova partenza. Soprattutto nel nostro tempo, in cui mettere ordine in noi stessi è così difficile non solo a causa della liquidità in cui viviamo, ma anche a causa dell’indolenza che portiamo in noi stessi (troppo spesso colpevolmente), scrivere parole può esserci d’aiuto. Se è pubblico però, deve essere politico, altrimenti meglio che resti segreto: non deve essere né un atto consolatorio, né un gioco finalizzato ad auto-assolversi; deve impegnarci profondamente. Nella speranza che il nuovo approdo, foriero di ancora nuove e più entusiasmanti partenze, non sia più un approdo solitario.

Special thanx to Cathall