mercoledì 13 agosto 2008

Gli intellettuali e la politica


Da sempre è uno dei rapporti più indagati, invocati o maledetti. E' abbastanza scontato a questo proposito citare Gramsci e la sua teoria dell'egemonia culturale. La sua vicenda personale nel complesso poi (personaggio politico di spicco e grande intellettuale) è un raro esempio di come le due tendenze possano unirsi. Molto più interessante può essere vedere come un grande anarchico quale Fabrizio De Andrè, in un'intervista apparsa su A rivista anarchica abbia dichiarato pressappoco che il governo di tecnici sia l'unico governo che vedeva possibile. Innumerevoli analisi si potrebbero proporre su queste due esperienze.
Con la presenza forte delle ideologie, determinanti non solo in ambito politico, ma soprattutto in quello intellettuale, il rapporto tra gli intellettuali e la politica era decisamente più facile di quanto invece lo sia adesso. Con la contestazione degli anni '68-'77, ed in particolar modo quella dell'ultimo anno citato, quando i giovani contestarono ferocemente l'istituzione della sinistra dell'epoca (il PCI), l'intellettuale è diventato un cane sciolto con annesse virtù e vizi del caso. Siamo tutti pronti a celebrare l'autonomia della ricerca intellettuale in assenza di gabbie ideologiche, ma dobbiamo essere altrettanto onesti nel riconoscere l'arroganza che la figura dell'intellettuale può assumere o ha assunto in questo contesto. Se in presenza dell'ideologia, il politico e l'intellettuale non avevano nulla di nuovo da imparare dall'esperienza (l'ideologia non si lasciava sfuggire niente, e tutto quello che accadeva non poteva che esserne solo una conferma), in sua assenza il politico si trova a dover fare i conti, privo di una visione globale della società, con le mareggiate delle dinamiche globali e con l'obbligo di dover prendere delle decisioni e delle responsabilità (senza mai trascurare l'impatto che queste hanno sull'opinione pubblica, ancor più nei sistemi bipolari), mentre l'intellettuale può riflettere serenamente sulle cose, dare risposte che non siano urgenti e che non hanno l'urgenza di accaparrarsi consensi. Può anche criticare il politico che non ha dato la risposta giusta.
Una situazione di sicuro privilegio, inevitabile per altro. Aggiungerei però, una condizione che è patrimonio che gli intellettuali stessi non devono e non possono sperperare dimenticandosi di essere dei privilegiati rispetto ai politici. L'errore più grande consiste proprio nel ritenere che la politica debba limitarsi ad adeguarsi alle analisi che l'accademia (in senso davvero lato) produce. Consiste nel ritenere che la politica (con la sua dialettica, con la sua ricerca dei consensi, con il suo dover fare i conti con noiose e stancanti contingenze) agli intellettuali (a chi sa le cose...) non abbia nulla da insegnare.
Alle primarie del Pd è stato candidato ed eletto Piergiorgio Odifreddi, che nelle sue ultime pubblicazioni ed esternazioni pubbliche, non ha mai fatto mancare la sua sui cosìdetti temi etici attaccando duramente le posizioni della Chiesa e le sue ingerenze sulla politica italiana. Sono passati pochi mesi ed Odifreddi è uscito dal Pd, attaccando duramente Veltroni reo di non operare scelte. Mi chiedo: come poteva sperare Odifreddi in pochi mesi di attività politica di imprimere una linea culturale ad un partito che conta circa 12 milioni di elettori?
In nessun'altro luogo come nella politica è necessario pensare che ci si sta mettendo in gioco, che nulla è scontato o inutile. E questa è cosa ben diversa dall'accettare aprioristicamente un compromesso al ribasso. Significa avere la consapevolezza della complessità con la quale si ha a che fare, complessità di cui spesso chi si accinge a fare/trattare di politica deve sapere che potrebbe esserne vittima.