giovedì 12 febbraio 2009

Ricostruzione partecipata della questione Englaro


Sono ormai diversi decenni che sparute avanguardie della vita civile del nostro paese propongono una legislazione in merito al fine-vite avendo come unica risposta un assordante silenzio, assecondato e stimolato dalle gerarchie ecclesiastiche e da quel sedicente mondo “pro-life” che nei giorni passati ha sostenuto un provvedimento d’urgenza in barba alla Costituzione repubblicana ed alla democrazia.

Il risultato di questo silenzio è stato un pauroso vuoto legislativo con in quale prima o poi ci saremmo trovati a dover fare i conti. Dapprima il caso di Piergiorgio Welby e poi quello di Eluana Englaro. Sono 17 anni infatti che papà Englaro ha posto la questione pubblica del fine-vita testimoniando insieme alla volontà di prendere maledettamente sul serio la volontà di sua figlia, l’intenzione di farlo nei confini del diritto, credendo nello stato italiano. Gli va dato atto di aver posto una questione pubblica con tutti i connotati che questa deve avere: senza ricorrere ai sensazionalismi e sfruttare dettagli pruriginosi neanche davanti alle più squallide provocazioni.

La risposta della politica, soprattutto di una destra rozza, all’affannata ricerca di un’identità e disposta a rinunciare ad ogni residuo di pensiero liberale ed a gettarsi tra le braccia della Chiesa cattolica sempre più lontana dall’evoluzione della società, è stata quella di fare orecchie da mercante, ignorando la questione. Non se ne è infatti promosso un dibattito pubblico (qualunque ne sarebbe stato l’esito), sempre in virtù della scivolosità del terreno su cui si dibatteva, lasciando sole le famiglie che trovandosi in condizioni simili preferiscono in quei momenti di dolore e smarrimento ricorrere ad una soluzione concordata sottobanco con medici ed infermieri di buon senso.

A questo atteggiamento ipocrita ha fatto da contraltare la dedizione di Beppino Englaro che è tenacemente andato avanti nell’intento suo e di sua figlia, senza mai perdere la fiducia nello stato e nelle istituzioni, restando convinto che “la libertà è nella società”.

Il 26 Gennaio è arrivato l’ultimo pronunciamento della magistratura che ritieneva legittima la richiesta di rifiutare l’alimentazione e l’idratazione attraverso il sondino naso-gastrico. Eluana è stata quindi trasferita ad Udine laddove avrebbe vissuto la liberazione da una schiavitù che ormai durava da 17 anni, secondo quella che era la sua volontà. Mentre l’opinione pubblica seguiva con grande coinvolgimento la vicenda, il Presidente del Consiglio (rimasto in indifferente silenzio sulla vicenda fino ad allora, ignorando anche una richiesta di aiuto giuntagli da Beppino Englaro nel 2004) ha deciso di approfittare di questa situazione per perseguire i suoi interessi di potere, scatenando uno scontro istituzionale senza precedenti con il Presidente della Repubblica che gli aveva chiesto di rispettare la Costituzione, ricattandolo dicendo di esser pronto a cambiare la stessa qualora non avesse firmato il decreto legge che imponeva di non interrompre l’alimentazione e l’idratazione. Napolitano non lo ha firmato e la maggioranza parlamentare ha iniziato un iter velocissimo per risolvere in due giorni la questione elusa per decenni.

Dopo solo 4 giorni dalla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione Eluana è morta. Con la facilità e la leggerezza tipica della cultura machista della destra italiana sono stati utilizzati il termine ‘assassinio’ ed ‘assassini’ riferendoli rispettivamente al Presidente della Repubblica, ai medici che hanno assistito Eluana, alla magistratura, a Beppino Englaro ed al sindaco di Udine. Berlusconi, senza ritegno per il momento, pone un altro importante tassello sul cammino di delegittimazione del Presidente della Repubblica e di smantellamento di ogni potere da lui indipendente dichiarando “è grande il rammarico che sia stata resa impossibile l'azione del governo per salvare una vita”.

Il Senato della Repubblica ha concluso la seduta, apertasi con l’intento di forzare le tappe ed approvare una legge che bloccasse l’interruzione dell’alimentazione ad Eluana ed interrotta dalla morte della ragazza e da vari momenti di tensione, giungendo alla conclusione di avviare un percorso che in due settimane porti all’approvazione di una legge che regoli il fine-vita. E’ stato il minimo della decenza davanti allo sciacallaggio che sarebbe risultato approvare una legge esclusivamente sull’onda dell’emotività per quanto poco prima accaduto.

Ed ora? Che ora si cominci un dibattito pubblico serio sulla questione del fine-vita evitando ogni tipo di pornografia che chiami in gioco la vicenda di Eluana, particolari pruriginose ed insinuazioni vergognose per chi le avanza. Si apra un dibattito vero, che faccia sua la lezione di Beppino Englaro che per perorare la causa sua e di sua figlia non ha mai utilizzato quel corpo, il suo lento consumarsi, il suo dolore come arma per zittire il dissenso dalle sue posizioni; che ha avuto la capacità di trasformare (e non di trasportare) un dramma privato in una grande questione pubblica. Lo si faccia avendo come fine una presa di coscienza di tutti noi (sulla cui pelle tale legge andrà ad agire) di quella che è la posta in gioco. Lo di faccia ascoltando tutti, tentanto di spiegare a tutti le proprie ragioni e non facendo leva solo su maggioranze parlamentari o fingendo dibattiti nei salotti televisivi. Con questi ultimi si riesce ad imporre una legge, ma non a contribuire alla maturazione civile e morale di un paese.

sabato 3 gennaio 2009

Le ferite narcisistiche dei nostri tempi

Gli anni '90 sono finiti da quasi un decennio ed ancora oggi non siamo riusciti a dar loro una forma, a capire cosa erano, e quindi chi siamo noi che quegli anni abbiamo vissuto o nei quali vi siamo cresciuti. Un luogo comune ed un giudizio affrettato parlano degli anni '80 come di un periodo di decadenza, anti-estetico e caratterizzato da passioni avvizzite ed volgari. Cosa pensare allora di un decennio che tutt'oggi non ci richiama all'urgenza ne' di un'analisi ne' di un pregiudizio, ma che ci lascia pascere come se quegl’anni non ci fossero mai stati o, peggio ancora, non meritassero neanche la nostra attenzione? Su tutto ciò che viene dopo gli anni ’80 l’unica cosa che si sente dire è che "non è più come una volta": molto spesso siamo proprio noi, padroni dei nostri anni migliori negli ultimi due decenni a cedere a questa lettura auto-assolutoria senza tentare di riprenderceli con tutta la sana arroganza della giovinezza.
L'indifferenza assieme all'indocilità purtroppo non è però solo un dato generazionale: se così fosse sarebbe ben poca cosa. Sono sentimenti diffusi con i quali gli anni '90, con il loro benessere e nell'illusione ottimistica diffusa di stare seguendo il percorso giusto, hanno pericolosamente formato una generazione e fatto vivere ed operare tutte le altre.
Non abbiamo ancora preso coscienza di come invece il decennio che si sta concludendo sia decisamente diverso dal precedente. Apertosi con l'attentato alle Torri Gemelle ci ha posto innanzi eventi e fenomeni storici tragici di portata epocale, davanti ai quali non siamo stati in grado di rispondere adeguatamente (mettendoci in discussione, accettando le sfide e svegliandoci dal torpore). Negli anni '00 abbiamo pagato in indocilità politica l'indocilità morale degli anni '90. Presto prenderemo coscienza e dovremo fare un bilancio, improvvisamente, di due decenni profondamente diversi ma strettamente connessi. Ad oggi, qui in Italia, possiamo ripartire da tre fenomeni che su tre scale diverse, al pari di Copernico, Darwin e Freud, hanno impresso delle ferite narcisistiche al nostro torpore politico. Freud stesso usò quest'espressione per descrivere come, in epoche diverse, delle scoperte scientifiche avessero incrinato le certezze dell'uomo: Copernico aveva dimostrato che il suo mondo non era al centro dell'universo e Darwin che era fatto più a somiglianza delle scimmie che di Dio. Freud, ponendo la scoperta dell'inconscio in continuità con quelle fatte dai due studiosi, spiega come con essa l'uomo ha appreso di non essere padrone della sua coscienza.
Nell'ultimo decennio su tre livelli diversi è avvenuto qualcosa di simile: eventi accaduti e fenomeni maturati ci hanno violentemente ricordato come il nostro modello di vita vada rivisto assieme alla convinzione circa la "fine della storia" (che come immediato corollario ha avuto quello che non è necessario farla, ma basta guardarla dalla finestra; ovvero, basta guardare il nulla).
Mondo. L'11 Settembre, con l'annessa radicalizzazione dello scontro con il mondo islamico e l'enorme sviluppo (espressione che ha definitivamente sostituito "'l'emergere") di nuove economie nel mondo asiatico, ha dimostrato che non viviamo nell'unica parte del mondo destinata a dominare le altre, quella in cui si è diffuso l'unico modello di sviluppo possibile. Una sensazione di vulnerabilità ci è tornata a correre lungo la schiena e quando parliamo di Al Quaeda ed Iran o del mercato cinese o indiano nessuno pensa neppur lontanamente di abbozzare un sorriso di scherno verso la natura tribale di quelle pratiche religiose o di quel modello di sviluppo: ci sentiamo minacciati da entrambi e talvolta non sappiamo dove poter prendere le energie per reagire.
Occidente. La crisi economica dell'ultimo autunno e tutt'ora in corso è senz'altro un fenomeno complesso ed ancora in fase di decifrazione. Nell'opinione pubblica ha però diffuso, come naturale, un senso di profonda insicurezza a cui dovranno necessariamente giungere delle risposte non solo in termini economici, ma anche politici e culturali. Il nostro modello di sviluppo ha dimostrato di poter fallire: apparentemente una banalità, ma questa semplice consapevolezza può aprire gli orizzonti più vari. E già questa possibilità è una importante novità.
Italia. Il fallimento del governo Prodi 2 e del centro-sinistra che lo sosteneva, con il conseguente ritorno al governo di Berlusconi ha dimostrato come il berlusconismo non sia solo un fenomeno passeggero di cui è sufficiente aspettare la fine. Il berlusconismo incarna l'animo profondo dell'Italia, è un nodo irrisolto non della politica ma della società. Non basta turarsi il naso e demandare alla classe politica la risoluzione del problema. La sfiducia verso la classe politica ed in particolare modo verso le opposizioni, ha due lati della medaglia: uno costruttivo e l'altro completamente distruttivo. Quest’ultimo è in continuità con il berlusconismo perché utilizza la sfiducia come motivo valido per il ritiro agli affari privati; il primo lato invece si incanala in una presa di coscienza ed in una assunzione di responsabilità. Il secondo fa indigestione di retorica (ed a lungo andare si logora) ma a conti fatti non produce nulla, il primo si nutre di pratiche, studio, impegni, sacrifici, organizzazione. In una parola: di politica.
A legare questi tre livelli c’è sempre una maggiore divaricazione tra ceti sociali poveri ed elite ricche: situazione che, oltre a chiedere giustizia, produce inevitabilmente un clima sociale e politico instabile che non necessariamente sfocerà in una presa di coscienza collettiva. Troppo spesso nella storia è successo esattamente l’opposto.
Per oltre vent'anni l'illusione che le vite private andassero naturalmente nella direzione giusta ci ha legittimati a chiedere alla politica di fare passi indietro e di lasciare che quelle seguissero il loro naturale percorso. Nella prima metà di questi vent'anni questo atteggiamento aveva un senso, nella seconda metà è stato solo un automatismo autolesionista. Oggi non abbiamo altra strada da percorre se non quella di chiedere al mondo, ma soprattutto a noi stessi, più politica: abbiamo tutte le ragioni per farlo e nessuna scusa per esimercene.