mercoledì 29 settembre 2010

Contro il mito pigro e autoassolutorio dell'eroe

da LINKREDULO di Martedì 28 Settembre 2010 - http://www.linkredulo.it/opinioni/1445-contro-il-mito-pigro-e-autoassolutorio-delleroe.html

Da circa un paio d’anni la figura dell’eroe è frequentemente evocata dal mondo politico. A cominciare è stato Marcello Dell’Utri che nel pieno della campagna elettorale del 2008, in maniera grottesca, definì Vittorio Mangano un eroe. Da allora il mondo politico non ha mai smesso di rimpallarsi una continua rivendicazione su quelli che sono i “veri eroi”: cominciò Veltroni in chiusura della campagna elettorale da Piazza del Popolo, citando tra i suoi veri eroi Peppino Impastato, hanno perseverato Berlusconi e Dell’Utri con Mangano, poi i finiani con Saviano contrapposto proprio allo stalliere di Arcore, Vendola con Falcone, Borsellino e Carlo Giuliani ed infine Bersani con Falcone, Borsellino ed Angelo Vassallo.

Il fatto che la casella “eroe” sia stata rilanciata in ambito berlusconiano per un condannato per mafia avrebbe dovuto imporre a chi voleva prendere le distanze da questa beatificazione quantomeno il beneficio del dubbio sulla validità di riempirla in modi diversi. Invece no: tutti hanno pensato che la risposta migliore fosse prestarsi a questo continuo rimpallo in cui i nomi chiamati in causa vengono trattati come figurine panini ed esposte ad un logorio d’immagine pari a quello di un qualunque prodotto di marketing.

In questi tempi contraddistinti da un fatalismo che fa apparire il futuro già scritto, o quantomeno al di fuori della portata dei più, e da un individualismo che da marcia gloriosa del self made man si è trasformato nella solitudine di tanti sconfitti, non c’è da stupirsi che l’idea di umanità sottesa alla figura dell’eroe sia stata recepita con tanta facilità: l’eroe è infatti qualcosa d’altro da noi, fa quel che fa proprio perché è irrimediabilmente diverso dal resto dell’umanità. Se si oppone alla mafia e muore ucciso da essa ad esempio non lo fa per virtù civiche e senso di responsabilità (valori coltivabili e perseguibili da tutti), ma perché ha dentro di sé, in quel fondo imperscrutabile, un qualcosa che lo spinge a farlo. Un qualcosa che nessuno può sforzarsi di coltivare per rendersi migliore: se ce l’hai te lo tieni e vai incontro al tuo eroico martirio senza lamentarti; se non ce l’hai pazienza, sei un uomo come tutti gli altri.

La trasformazione di semplici uomini e di semplici donne in eroi è utile a lasciare il resto dell’umanità quieta nei propri affari quotidiani, lontana dal pensiero che il loro esempio potrebbe un giorno diventare la normalità in una società diversa e meno rassegnata. Elevarli al rango di eroi ci sottrae ad un confronto con loro: ci priva di un termine di paragone davanti al quale le nostre paure, l
e nostre meschinità impallidirebbero mostrandosi per quello che sono: non limiti e difetti intrascendibili connaturati all’umanità, ma qualcosa di superabile che se non riusciamo a sconfiggere è solo per responsabilità nostra.

Vittorio Mangano e Peppino Impastato (rispettivamente il peggio e il meglio della storia d’Italia) non sono eroi ma uomini come noi: con le loro paure, le loro ambizioni e la libertà di scegliere quale strada percorrere. Proprio come noi che possiamo scegliere di degradarci al livello dello stalliere, elevarci al livello del giovane che muore perché sogna una Sicilia senza mafia o guardare entrambi nelle diverse forme che l’indifferenza ci offre, alleandoci così tacitamente con il più forte ed il più arrogante dei due.

Per ricordare che ci sono storie nelle quali riconoscersi non è necessario trasformare il ricordo in una forma di laica beatificazione; anzi tale metamorfosi è il modo migliore per annichilire e mistificare l’opera di chi quelle storie le ha incarnate, condannando le sue idee ed il suo coraggio ad una solitudine postuma, ancor più dolorosa di quella che ha contraddistinto la sua esistenza terrena perché ha il sapore di un’eterna incomprensione.

mercoledì 15 settembre 2010

A Norman Zarcone, parresiaste di questi tempi bui

“Compare, la libertà di pensare è anche la libertà di morire”

Norman Zarcone era un dottorando in Filosofia presso l’Università degli Studi di Palermo. Si era laureato con 110 e lode con una tesi in Filosofia del Linguaggio e dopo la laurea aveva partecipato al concorso di dottorato. Era risultato, dopo alcune rinunce, tra i cosiddetti “vincitori senza borsa”, cioè poteva svolgere il suo lavoro di ricerca e vederselo riconosciuto legalmente dall’Università senza però ricevere durante i tre anni di lavoro alcuna forma di retribuzione. Accettare questo tipo di collaborazione con l’Università significa svolgere sacrifici per tre anni, rinunciando dopo la laurea ad avere una vera e propria indipendenza, con la prospettiva di una carriera accademica. Prospettiva che in realtà in questi tempi di tagli all’Università ed alla ricerca non c’è.

Lunedì Norman si è tolto la vita perché si era reso conto che quei sacrifici non sarebbero serviti a niente e che alla fine di quel triennio l’Università gli avrebbe dato il benservito. Norman, come tutti noi, faceva parte di una generazione alla quale è stata venduta in astratto la flessibilità del mercato del lavoro come una grande opportunità per dimostrare le proprie capacità. Da più di dieci anni ci sentiamo ripetere la litania che precarizzare il mercato del lavoro ed adeguare ogni settore della vita civile alle leggi del mercato significa realizzare più mobilità e più meritocrazia. Molti di noi ci hanno creduto e molti di noi ci credono ancora, accettando condizioni di palese sfruttamento illudendosi che sia una situazione solo temporanea, che lo stanno facendo per dimostrare il proprio valore e che arriverà il momento che qualcuno lo riconoscerà.

Norman no. Lui ha capito tragicamente che alla fine di quel triennio si chiudeva una porta e non si apriva più niente, che quella condizione alla quale i nostri tempi lo avevano costretto non era passeggera, che avrebbe potuto continuare ad accumulare competenze ma che questo non gli sarebbe servito a conquistarsi la possibilità di essere padrone della sua vita. Ha capito tutto questo, non ha fatto niente per nasconderselo e si è sentito perso.

Il gesto di Norman ci ha svelato la falsità di quella litania sulla flessibilità e la verità sulla condizione di chi è costretto a subirne gli effetti. Norman ci ha parlato di questi tempi bui molto meglio di quanto possano farlo migliaia di libri, inchieste giornalistiche e talk show. Lo ha fatto in una maniera inequivocabile.

A noi, suoi coetanei, spetta raccogliere il suo grido non permettendo che si perda nel vuoto della collettiva indifferenza.



da LINKREDULO di Mercoledì 15 Settembre - http://www.linkredulo.it/scuola-e-universita/1419-a-norman-zarcone-parresiaste-di-questi-tempi-bui.html

venerdì 10 settembre 2010

2001-2010: metamorfosi del berlusconismo ed eclissi della politica

da LINKREDULO di Giovedì 09 Settembre 2010 22:44 - http://www.linkredulo.it/politica/1404-2001-2010-metamorfosi-del-berlusconismo-ed-eclissi-della-politica.html

La campagna elettorale del 2001 la ricorderò per sempre: avevo 16 anni ed era la prima a cui partecipavo attivamente. Ripensandoci oggi riesco a comprendere alcuni aspetti che all’epoca sfuggivano allo sguardo di un adolescente e facendolo mi balza agli occhi com’era diversa quella fase del berlusconismo da quella attuale.

Durante quella campagna elettorale Berlusconi riuscì a costruire un sogno ed a trasmetterlo al suo elettorato. Erano anni in cui il credo neo-liberista non incontrava resistenze e si pensava che la caduta del muro di Berlino e l’avanzata del mercato su tutto il globo terrestre avrebbero diffuso il benessere e la libertà ovunque. Si trattava insomma, almeno nella propaganda, di una forma di universalismo: un’idea di società in cui per tutti è possibile essere felici. A fianco di questa metamorfosi geopolitica era egemone in Occidente un individualismo che celebrava il successo del singolo e proprio in questa chiave declinava la felicità. Berlusconi si fece interprete di entrambi questi aspetti: il primo nella forma di disegno politico ed il secondo incarnandolo con la sua biografia (opportunamente riveduta e corretta da abili comunicatori). La fase finale della campagna elettorale coincise con il 1° Maggio ed in quell’occasione Berlusconi sostenne che avrebbe creato nuovi posti di lavoro perché facendo l’interesse delle aziende avrebbe permesso a queste di creare nuova occupazione: un’affermazione che riletta oggi, alla luce della legge 30, appare in tutta la sua assurdità ma che allora riuscì a convincere gran parte dell’opinione pubblica. In questo contesto va anche inserita la crisi della politica avviatasi nell’89 con la fine di quelle che venivano chiamate le “grandi narrazioni” ed aggravata in Italia dal discredito che sulla classe politica gettò senza appello l’inchiesta di Mani Pulite. Anche in questo Berlusconi si fece interprete dello spirito dei tempi presentandosi come l’uomo d’azienda, di successo, quello concreto ed estraneo alle pastoie ed all’inconcludenza della politica. Ricorrente nella campagna elettorale era l’espressione “governerò l’azienda Italia”.

Ponendo l’accento su questi aspetti non voglio ridimensionare l’impatto che su quella campagna elettorale (e su tutte le successive) ebbe il controllo della maggior parte dei media, ne’ gli errori del centro-sinistra. Il mio intento è considerare la vicenda berlusconiana in un più ampio contesto in cui a fianco dell’eccezione democratica, tutta italiana, c’era una regola economico-sociale uniforme in tutto l’Occidente a tal punto da spingere i governi progressisti ad adeguarvisi. Questo aspetto infatti, a mio parere, non è mai stato sufficientemente indagato ed è una delle cause, forse la principale, della mancanza di credibilità del centro-sinistra attuale e della sua incapacità di creare una prospettiva credibile di futuro. Il delirante Berlusconi degli ultimi anni, il suo ineguagliabile potere economico e mediatico e la rozzezza che lo circonda hanno infatti indotto in molti erroneamente l’idea che alla base del suo successo politico non ci sia alcun sogno, alcuna utopia attorno alla quale si è raccolto il suo consenso.

Ed oggi? Cosa è cambiato nel modo di Berlusconi di porsi sulla scena pubblica? La speranza che il suo governo avrebbe creato prospettive di vita migliori per tutti si è irrimediabilmente arenata sul crescente divario nella distribuzione della ricchezza e su una normativa in tema di mercato del lavoro che ha privato le giovani generazioni di ogni speranza. Già alla fine del mandato iniziato con quella roboante vittoria non si sentiva più Berlusconi prospettare un futuro migliore per tutti. Emblematico è il caso della scuola: nel 2001 quello di una riforma della scuola basata sulle tre i (inglese, internet, impresa) era uno dei temi su cui si basò la campagna elettorale. Quel disegno era perfettamente coerente con quanto descritto prima e si trattava di un’idea di scuola, con la quale essere o meno d’accordo. Passati gli anni la scuola si è trasformata sull’agenda berlusconiana da luogo di questa prospettata rivoluzione a settore da tagliare.

A quella prospettiva universalistica (non più credibile dopo quei 5 anni di governo) si è sostituito un altro approccio tipico dei regimi: l’accusa nei confronti dei sabotatori, divenuta anno dopo anno più frequente e trasferitasi dall’opposizione ad alcune “elitès di merda” (Brunetta dixit) come la magistratura, gli intellettuali e i giornali non compiacenti fino ad arrivare ad intere categorie sociali, in particolar modo i dipendenti pubblici. Berlusconi è passato dall’unire una cospicua parte di opinione pubblica attorno ad un sogno ad unirla attorno all’avversione per l’altra parte d’Italia. Ha trovato terreno fertile in un mai sopito sentimento anti-comunista, nell’idea, incrementata da tangentopoli, che il settore pubblico e chi vi lavora sia parassitario ed in ciò che restava del fascino del self-made man.

A fianco di una mancanza di radicalità nell’opporsi all’eversione berlusconiana, ritengo che il principale errore del centro-sinistra nel 2006 sia stato quello di non aver saputo contrapporre al declinante sogno berlusconiano un altro sogno, un’altra idea di società, smarcandosi più nettamente dal credo neo-liberista. Perdendo qualche pezzo di coalizione si sarebbe potuta condurre una campagna elettorale con un po’ più di chiarezza sui temi chiave e con un programma un po’ più coinvolgente ed entusiasmante del pur sacrosanto stato dei conti pubblici, in nome dei quali è davvero impensabile chiamare un popolo alla mobilitazione.

Nelle elezioni del 2008 abbiamo potuto vedere come il sogno berlusconiano era completamente sparito. Il fallimento dell’esperienza di governo del centro-sinistra gli ha offerto un motivo in più per condurre la campagna elettorale esclusivamente nella modalità suddetta: legittimare ed esaltare il pensiero di una parte dell’opinione pubblica di essere migliore dell’altra. La caccia ai sabotatori però si è rivelato ancora una volta l’unico rimedio per colmare il vuoto di politica: la vicenda di Fini lo testimonia. A ciò va aggiunta la crisi economica del’08, tanto epocale da indurre tutti i leaders conservatori occidentali a ripensare l’intervento dello Stato nella vita pubblica. Ciò era però incompatibile con il sogno berlusconiano e tale incompatibilità si è tradotta in un balbettio negli interventi per affrontarla o in contrasti con la politica del rigore di Tremonti.

Oggi al popolo berlusconiano ed all’opinione pubblica ancora disposta a credergli resta, rinvigorito dall’astio verso l’altra parte d’Italia, il cadavere di quel vecchio sogno che mantiene una credibilità posticcia grazie all’assenza di alternative valide e pronte al confronto; opzione a cui talvolta il centro-sinistra sembra aver purtroppo rinunciato.