martedì 23 novembre 2010

Intervista a mio nonno Alfredo

Circa quattro anni fa, all'interno di una rubrica che curavo su coratolive.it in cui intervistavo personaggi del mio paese, dedicai due spazi alla memoria storica. In uno intervistai Vito Caldara, bracciante agricolo e militante della CGIL e gli chiesi di raccontarmi le lotte bracciantili ed in un'altra intervistai mio nonno paterno (di cui porto il nome) chiedendogli di raccontare la sua esperienza di emigrante in Canada negli anni '30-'50. Nella primavera scorsa mio nonno, all'età di 97 anni, ci ha lasciati.
Per timore che quell'intervista, che racconta una storia verso cui mi sento debitore, vada persa la ripubblico su questo blog.



…stai tranquillo?

Sto tranquillo!


Come ti ricordi Corato prima di partire per il Canada?


Una grande povertà. Io lavoravo come meccanico, ma guadagnavo molto poco.



E dell’infanzia che ricordi hai?

Ricordo che giocavo con un carrettino. Un'altra volta misi su un teatrino: prendevo delle figure che mettevo in un apparecchio con una luce dentro e dei vetri che rifletteva queste figure sul muro.



Che scuola hai frequentato?

Sono andato alla scuola elementare: all’epoca era fino all’ottava classe, ma io la feci fino alla sesta.



In che edificio?


Al Fornelli.



Tutti e sei gli anni?

No, c’erano altri edifici. Sono stato lì un paio di anni e poi altri magazzini: locali al pian terreno di palazzi erano affittati a scuole.



E il riscaldamento?


No, non c’era riscaldamento.



E dopo la scuola che facesti?


Dopo la scuola mio fratello mi portò in campagna, ma non andavamo molto d’accordo: e siccome lui era anche più grande di me ed aveva più esperienza di cinque anni, quindi era lui che voleva decidere.



I tuoi amici di scuola come erano vestiti, che persone erano?


C’erano sia ricchi che poveri, e li si riconosceva subito, i poveri si vestivano come capitava ed alcuni figli di ricchi venivano in carrozza ..e allora dopo la scuola…. Io dissi che volevo fare il meccanico, che era un lavoro

importante; la mia famiglia non voleva: le mie sorelle volevano che io andassi da un negozio a fare pratica e l’indomani, aprire un negozio di tessuti. Ma pensai che il negozio quando volevo lo aprivo.


Tu sei andato in Canada nel 1935… I soldi del biglietto dove li trovasti?

Li prendemmo in prestito dalla banca. E poi dall’America spedivamo i soldi per saldare il debito, allora gli interessi erano molto alti.



Chi venne con te della tua famiglia?


Eravamo 3 sorelle e 2 fratelli. Partimmo da Napoli, andammo prima in Inghilterra, a Liverpool, e lì trovammo una nave grande che in 7 giorni ci portò in Canada.



Non viaggiasti in prima classe?


No, la prima volta che andammo viaggiammo in terza classe. L’ultima volta tornammo in prima classe: ci dettero da mangiare un po’ di più, il letto era migliore, ma sono fesserie..!



Quando siete arrivati in Canada come vi hanno accolto? Vi hanno fatto delle visite mediche?


No, quello le fanno sulla nave: visitavano per vedere se avevi qualche malattia infettiva, e se l’avevi non ti facevano partire.



Arrivato là che lavori hai fatto?


Il lavoro non si trovava. C’erano una disoccupazione mondiale, una crisi mondiale. E allora stavo a spasso: andavo a lavorare in un posto, mi tenevano una settimana e poi mi licenziavano. Ho fatto molti lavori.



Tipo?


Trovai lavoro come meccanico in un garage, poi dopo 1-2 settimane mi dissero che non avevano più bisogno.



E quando non c’era lavoro come facevi per mangiare?


Le mie sorelle hanno sempre lavorato come sarte. Stavamo tutti insieme, eravamo tutti scapoli. E loro in quel periodo mettevano i soldi per mangiare. A quel punto la fortuna la ebbi io (lo sguardo si illumina e la voce assume un ritmo molto più lento, cadenzato, tradendo un certo orgoglio…). Mi venne un’idea: mettermi a vendere cose. Mi andavo a trattenere da un amico che aveva una salumeria, un italiano professore di musica, che da anziano aprì questo negozio. Un giorno venne un uomo a portargli del caffè. Chiesi a questo amico cosa facesse quest’uomo e lui mi disse “sta facendo una fortuna, va vendendo caffè nelle case private”. Decisi di provare a fare lo stesso. Chiesi 5 dollari a mia sorella e le dissi che mi servivano per comprare del caffè, e cominciare a guadagnare qualche cosa. E andai a persone che conoscevo, a case private, degli italiani a venderlo. Lo acquistavo a chilo… lo andai a comprare da quello che trovai nel negozio, che aveva la torrefazione. Ricordo che aveva vari tipi di caffè con nomi diversi, ed io non sapevo niente.



E quale prendesti?


Gli chiesi di darmi quello migliore, non potevo dirgli che non capivo niente… E cominciai a girare a vendere questo caffè: andavo a piedi, perché se prendevo il tram se ne andava tutto il profitto che avevo fatto. Dopo un poco mio fratello aveva la macchina e vedendo che io andavo in giro con i pacchi di caffè a tracolla me la dette.



E insomma ti stava andando bene…


Una volta avuta la macchina giravo e vendevo bene. Lo seppe il venditore, quello che lo vendeva a me, e per paura che gli rubassi il mestiere mi dette un caffè brutto, miscelato di porcherie: quando lo portai alla gente mi dissero “che razza di caffè mi hai portato? Quello è veleno..!” Lo fece apposta. A quel punto andai da una ditta canadese, e continuai a vendere. Guadagnavo sì, ma non tantissimo. A mio fratello venne un’idea, mi disse “e se noi vendiamo qualche altra cosa quando andiamo in casa?” E cominciammo dal formaggio, continuando con la pasta, etc.



Giravate con la macchina piena di tutte queste cose?


Si. Parlammo con le ditte che producevano caffè, latte, pasta, ma ci servivano la prima volta, poi dopo ci dicevano che servivano solo ai negozianti perché per legge i grossisti possono vendere solo ai negozianti. Io ero un privato e non mi servivano più. E allora decisi di comprarmi un negozio con i soldi che avevamo fatto. C’erano degli annunci sui giornali e trovammo un negozio di due vecchietti canadesi. Non avevano niente nel negozio, e lo vendevano: erano stanchi. E per 50 dollari ebbi il negozio. A me non serviva quello che vendevano loro, ma la licenza. E allora tornai dalle ditte, gli dissi di avere il negozio in tale posto e mi portarono le cose.



Ma dopo quanti anni cominciasti a fare questo lavoro?


Dopo 2-3 anni… e allora comprammo una proprietà, un fabbricato di due piani, dove stava una ditta canadese che faceva gelati. Lo comprammo per 15.000 dollari.



Ed avevi fatto così tanti soldi vendendo caffè?


Erano già un paio d’anni che lo facevo. Ed aprimmo il negozio. C’erano due piccoli magazzini: io buttai giù il muro e feci uno spazio grande. Attorno lì c’erano molti italiani che abitavano e venivano a fare la spesa. E dietro abitavamo noi. Ma era ancora piccolo, decisi che ne volevo uno più grande. A quel punto andammo in Via San Lorenzo: comprammo un grande magazzino. Il proprietario era un siriano.



Venivano tante persone a comprare?


Si, anche dagli altri paesi. Vendevamo a prezzi più bassi dagli altri negozi. E poi io decisi di non perdere i clienti che mi ero fatto fuori, ed allora dissi a mio fratello di restare nel negozio ed io andavo in giro in macchina dai clienti di fuori. E quel negozio è stata la nostra fortuna.



I canadesi come vedevano il fatto che un immigrato si fosse arricchito? Erano invidiosi?


Si, erano invidiosi. Vedevano che gli italiani venivano da fuori e si compravano le proprietà.



Ma vi dicevano qualcosa? Vi criticavano?


No, altrimenti si faceva lite. Da dietro, tra di loro parlavano, ma noi sempre sentivamo quelle cose. Gli italiani lavoravano e mettevano sempre soldi da parte.



E gli altri italiani che lavori facevano?


C’erano alcuni che facevano lavori umili ed altri che erano grandi industriali. C’era uno che faceva gli aerei.



Tu sei stato là dal ’35 al ’57, durante il fascismo e la seconda guerra mondiale. Là arrivavano le notizie?


Certo, lì c’erano i fascisti. Anche dei canadesi, figli di italiani che erano fascisti.



Ma gli altri canadesi quando vedevano voi italiani vi sfottevano, vi chiamavano ‘fascisti’?


No, c’erano anche fascisti tra di loro.



E si riunivano in qualche associazione?


Si, c’era un posto dove si riunivano, la ‘casa d’Italia’, un’associazione dove si ballava, ma io non mi volli iscrivere. Quando ero in Italia ero fascista, perché se non eri fascista non facevi nessun lavoro, non potevi fare niente. Ma quando arrivai in Canada dissi: no, fascista non voglio essere! In Italia era necessario, qui dove posso avere le mie idee non ne voglio sapere. E fui fortunato: quando Mussolini dichiarò guerra all’Inghilterra, ed il Canada faceva parte dell’Inghilterra, la Polizia andò la notte stessa nella sede dell’associazione, prese i registri ed arrestò tutti i soci. Meno male che non mi iscrissi, perché nessuno pensava alla guerra..



… tu non ti iscrivesti perché non ti volevi iscrivere?

Si, dissi qui non voglio essere fascista: voglio essere libero, e non mi iscrissi. Ma non pensavo che doveva venire la guerra, come non lo pensava nessun’altro.



E poi perché hai deciso di tornare in Italia? Stavi facendo tanta fortuna…


Perché quello che avevamo fatto mi bastava, il modo di vivere in Canada non mi piaceva. E poi pensai che quando i figli sarebbero diventati grandi, in Italia non sarebbero più voluti venire. Tutti quelli che nascono lì non vogliono più tornare in Italia. Avevo due figli e decisi di tornare subito, quando ancora erano piccoli, 5 e 3 anni.



Quando sei tornato in Italia poi c’era tensione sociale, soprattutto nelle campagne. Ti sei mai pentito di esser tornato?


No, no, mai. Non mi sono mai trovato in queste faccende. Portavo a lavorare sempre persone di fiducia. Non tutte le persone sono cattive sulla terra…



Hai trovato molto diversa Corato al tuo ritorno? Si stava meglio?


Tutto era diverso: si stava meglio, si guadagnava di più. Però l’Italia è rimasta sempre povera.



Ma di che cosa ti stupisti quando tornasti?


Gente che mangiava pane soltanto, o anche gente che non aveva neanche quello. Quello non era cambiato; adesso si sta molto meglio.



Ultima domanda: adesso hai 94 anni, c’è qualcosa di cui ti sei pentito o sei soddisfatto di tutto?


Sono rimasto contento di tutto. Ho sempre lavorato, sempre preso iniziative. E l’ho fatto fino ad adesso.



Grazie


Prego


29/12/06

martedì 2 novembre 2010

Il Tea Party, la Vandea repubblicana che minaccia Obama. Intervista a Mattia Diletti

Oggi si svolgeranno le elezioni di mid term negli Stati Uniti. A soli due anni dal trionfo di Barack Obama il protagonista assoluto di questa campagna elettorale è stato proprio l’avversario numero uno del Presidente americano: il Tea Party. Di questo fenomeno in Italia ne parlano da mesi tutti i giornali. Si tratta di un movimento politico sorto dal basso su posizione a destra nel Partito repubblicano. Il nome fa riferimento al Boston Tea Party (ricevimento del Te di Boston), un atto di protesta messo in atto dai coloni americani contro il governo britannico a causa della iniqua politica sulla tassazione da questo operata sul commercio del Te. La polemica anti-statale ed il fondamentalismo religioso sono i capisaldi del moderno Tea Party. Per chiarirci le idee su questo fenomeno abbiamo intervistato Mattia Diletti, ricercatore presso l’Università di Teramo e l’ Osservatorio Geopolitico sulle Elite Contemporanee, nonché co-autore del blog America 2012.


Come è nato il fenomeno del Tea Party e su quali rivendicazioni?
Il Tea Party è un fenomeno carsico, nel senso che ci sono sempre delle periferie politiche che riemergono sempre ciclicamente nei periodi di crisi della storia americana ed il Tea Party è uno di questi. I temi che tratta sono temi antichi: il governo minimo, poche tasse, riduzione dell’intervento pubblico e del governo federale con l’aggiunta di venature ideologiche che hanno a che fare col nativismo; poi c’è un richiamo ai valori della vera America e dei veri americani ed in questo caso la polemica è nei confronti dell’immigrazione ispanica. Negli anni ’60 nel Partito repubblicano è accaduto qualcosa di simile quando c’era una schiacciante maggioranza democratica al Congresso e Lyndon Johnson aveva stravinto le elezioni presidenziali del ’64 e nel Partito repubblicano ci fu una specie di guerra civile che era cavalcata dal candidato presidenziale di allora che era Barry Goldwater. Lui perse sonoramente le elezioni del ’64 ma gettò le basi perché si affermasse una cultura molto simile a quella del Tea Party nel Partito repubblicano che prima era un partito molto più moderato. Sono vecchi temi che riemergono ed in questa occasione tutta l’opposizione politica e sociale che non si era manifestata durante la campagna del 2008 perché si era effettivamente chiuso il ciclo del bushismo è riemersa nel 2009, ed ovviamente a facilitarne l’emersione è stata la crisi. Tanto più questa amministrazione non sembra risolvere determinati problemi, tanto più era facile uscire fuori e raccontare un’altra America facendo leva sul malcontento popolare che c’era.

Quindi non ci sono novità nel Tea Party rispetto alla storia della destra americana?

No. È una storia che ciclicamente si ripete, ovviamente la storia non si ripete mai uguale. È frutto della crisi, nel senso che anche quella di Obama è stata una vittoria frutto della crisi perché c’era una crisi politica ed economica ed anche Obama ha proposto un’altra idea dell’America a partire dai fondamenti. Anche Obama fa riferimento ai padri fondatori dicendo che il sogno americano deve essere più inclusivo, deve dare la possibilità a tutti di potersi esprimere, per questo serve più occupazione, maggiore sicurezza sociale e quindi la riforma sanitaria. Lo stesso avviene con il Tea Party: anch’essi prendono le parole dei padri fondatori, della Costituzione ma li declinano a destra. In questo momento di crisi si va ai fondamenti, alle radici: lo hanno fatto i democratici nel ’08 ed è sembrato molto persuasivo perché era finito un ciclo politico (il fallimento delle guerre in Iraq e Afghanistan, la crisi etc.) e lo stesso sembra accedere adesso. Soprattutto poi questo Tea Party è servito a rinserrare le fila ad un movimento conservatore che è stato forte in questo trentennio. Le novità rispetto a qualche anno fa è che c’è meno Dio e più governo minimo, meno intransigenza religiosa e più opposizione al governo federale.

Obama ha delle responsabilità nella crescita di questo fenomeno?

In parte si ed in parte no. Prima o poi un contro-movimento doveva rinascere, era impensabile che i repubblicani stessero fermi quattro anni. È difficile dire quanto queste cose nascano spontaneamente o quanto possano essere tra virgolette ‘pilotate’. È evidente che il Tea Party non è un movimento al singolare, è un movimento al plurale: si sono formati gruppi tra di loro più o meno omogenei che si sono riconosciuti, hanno deciso di darsi una piattaforma comune, hanno trovato anche persone capaci di dargli un linguaggio comune ed anche dei finanziatori comuni. Il Tea Party però è nato prima di trovare i finanziatori, ha anche una certa autonomia rispetto a questi personaggi che da sempre finanziano i movimenti conservatori e che ne hanno capito la portata. Prima o poi sarebbe accaduto anche perché c’era da aspettarselo (e questo è un tema che è sottotraccia ma c’è…) che i bianchi si sarebbero ribellati ad un Presidente nero. È vero che nel Tea Party non sembra essere il colore della pelle il tratto fondamentale però è più facile prendersela con un Presidente che sembra un parvenue. Era più facile per Roosvelt che era un patrizio bianco imporre una cultura diversa negli anni della crisi e del New Deal all’elettorato bianco che non ad uno come Obama oggi. Tutti i commentatori dicono che avrebbe dovuto cominciare dal lavoro e continuare in quella direzione: adesso a posteriori è facile dirlo ma dicono tutti che non doveva cominciare dalla battaglia sulla riforma sanitaria, perché poi è da lì che è cominciato il Tea Party: ‘è arrivato il socialista che vuole espandere il governo federale e controllare le nostre vite attraverso il governo federale’. Piuttosto che occuparsi di quello doveva occuparsi soprattutto del lavoro perché quella è la sua base elettorale: se gli ispanici, una grossa fetta di voto per Obama del ’08, perdono il lavoro è probabile che siano loro e le loro basi sindacali quelli più freddi nei confronti di Obama. Lo stesso è accaduto con i giovani.

All’interno della destra americana le posizioni del Tea Party sono maggioritarie? Come è stato recepito questo fenomeno all’interno del Partito repubblicano?

Questo è ancora difficile da capire; si saprà dopo le elezioni quando si vedrà quanti candidati del Tea Party saranno riusciti ad entrare in parlamento e si capirà anche che tipo di battaglia comincerà. Questo è sempre un gioco un po’ pericoloso: da una parte c’è una classe dirigente del Partito Repubblicano, un’elite del Partito che da una parte vuole cavalcare l’onda perché ha capito che è forte e dall’altra non vuole farsi sommergere. Sicuramente ci sarà una lotta feroce perché in previsione del 2012 per una parte del Partito Repubblicano un candidato alla Sarah Palin è completamente inaccettabile. È una battaglia in divenire però è chiaro che le tensioni sono forti, ora sono tutti uniti per l’obiettivo elettorale però laddove alcuni candidati forti repubblicani sono stati battuti alle primarie da alcuni rappresentanti del Tea Party si sono presentati come indipendenti (come in Florida e in Alaska). Una delle cose che ritorna sempre nel dibattito politico americano è la possibilità di un terzo partito: ex repubblicani alla Bloomberg, uno come Schwartzneger, altri in giro per l’America che decidono che quello è un partito troppo estremista e bisogna disinnescarlo con la nascita di un terzo partito che si presenta alle elezioni. È uno scenario futuribile ma in America se ne parla.

Quindi ritieni possibile che il Tea Party possa diventare maggioritario nel Partito Repubblicano ed estrometterne la parte moderata?

I partiti americani sono una cosa strana, non si può dire che ci sono le maggioranze e le minoranze, non fanno mai un congresso.

Però se si dovesse verificare la vittoria alle primarie di Sarah Palin difficilmente potrebbero sostenerla alle elezioni presidenziali.

Secondo me si. Ed infatti a mio parere Obama, anche se dovessero andare malissimo le elezioni non ha troppo da perdere. Il paese sì, nel senso che probabilmente resta bloccato per due anni, ma lui avrà probabilmente delle figure emerse da queste elezioni di medio termine finalmente da biasimare; avrà dei nemici contro i quali opporsi il che fa sempre comodo anche per galvanizzare la propria base. E poi è possibile che questo Partito Repubblicano non arrivi compatto così com’è al 2012. Estromettere è difficile, ma se continuasse l’onda potrebbe essere un’onda che porta fino alle elezioni 2012. Obama ora ha due possibilità: o fare come Clinton e cercare un accordo con i repubblicani su alcuni temi sui quali ci può essere un incontro (anche se non si capisce quali sono) e l’altro è fare due anni di campagna elettorale e governare con i mezzi che ha il Presidente e che comunque esistono. Di certo non ti permettono di fare le grandi riforme però il Presidente ha più di uno strumento per intervenire nella politica del day by day. Potrebbe tornare centrale la politica estera; è una cosa tipica che accade: quando il Presidente non ha strumenti di trasformazione della politica interna si muove sulla politica estera, ma con la crisi che c’è mi sembra complicato come passaggio. In questo momento l’America guarda dentro se stessa. Una cosa da mettere a fuoco che secondo me è molto interessante in questo momento è che mai come oggi l’Occidente si è avvicinato perché in America c’è lo stesso problema che si vive in Europa, cioè c’è una classe media arrabbiatissima perché sta effettivamente perdendo potere d’acquisto e prestigio sociale. Noi abbiamo delle classi medie che si impoveriscono da una parte e dall’altra dell’Atlantico e in molti casi abbiamo reazioni scomposte, arrabbiate e che guardano a destra. Il Tea Party è una declinazione di questo sentimento. Nel 2008 Obama è riuscito in qualche modo a convincere che c’era un’altra possibilità di cambiamento per un altro pezzo di classe media americana che aveva creduto al Partito Democratico, quelli che avevano già sofferto nel periodo precedente dell’amministrazione Bush che stavano cominciando a soffrire la crisi economica. È molto difficile per gli americani cominciare a pensare che possano avere una casa un po’ più piccola, consumare un po’ meno benzina. Questa è una cosa veramente complicata da trattare nella politica americana: il non essere più il numero uno, con il miglior stile di vita nel mondo e vedere gli altri che invece sembrano pieni di fiducia e di forza come accade in Cina e in India, ovviamente anche lì ci saranno prima o poi delle crisi di crescita, economica, etc. o nello stesso Brasile guardando a Sud. Questa è una cosa che politicamente si traduce in una rabbia permanente alla quale la politica non sa dare risposta. L’America ha anche delle difficoltà da un punto di vista istituzionale a rispondere in fretta a certi problemi.

Hai parlato del Tea Party come di un “fenomeno carsico”. Quali sono la struttura e l’organizzazione del Tea Party?

Sostanzialmente sono gruppi di cittadini che si incontrano, si mettono insieme e dicono “noi siamo il Tea Party di questa città…”, costituiscono delle convention, si legano in alcuni casi chi più chi meno al candidato locale in queste elezioni.

Quindi non c’è un’organizzazione verticale?

Assolutamente no. A un certo punto si crea una capacità di uniformare il linguaggio, gli obiettivi e ciò dipende da chi meglio sa agire come piattaforma per tutti quanti. Il centro sono stati quei soggetti che meglio di tutti hanno saputo creare per primi la piattaforma di cui tutti possono usufruire. È quasi un riconoscimento sul campo, non c’è mai stata una convention nazionale del Tea Party, c’è stata una grande manifestazione che è diventata la manifestazione del Tea Party (quella organizzata da Glenn Beck ed in cui è apparsa anche Sarah Palin) a cui molti Tea Party hanno partecipato, ma non c’è una struttura vera e propria. Come spesso capita per questi gruppi americani sono a cavallo tra il formale e l’informale. Dopodiché puoi trovare in questo network alcuni nodi che sono determinanti e fondamentali per la buona riuscita del movimento e della sua nazionalizzazione.

Abbiamo letto da molti giornali italiani che Berlusconi sembra essersi interessato al fenomeno del Tea Party e voglia esportalo in Italia. Ancora una volta però: quale sarebbe la novità rispetto al centro-destra che durante gli anni del governo Prodi ha costruito il suo ritorno al potere proprio sulla polemica contro l’inasprimento della pressione fiscale (e non a caso ora che sono tornati al governo tagliano ovunque la spesa sociale) e con un forte riferimento religioso (basti pensare alle vicende legate alla legge 40, al caso Englaro ed alle unioni civili)?

È evidente che ci sono alcune basi culturali che possono divenire comuni tra una parte e l’altra dell’Atlantico, dopodiché del Tea Party ne ha parlato anche FareFuturo ed io ho sentito pronunciare un riferimento al metodo, ovviamente non abbracciando la piattaforma, da parte di alcuni esponenti del Pd. Cos’è che affascina? Il fatto che ci sia una spontaneità popolare che viene messa in moto sulla base di una piattaforma politica che ha degli obiettivi di breve periodo ma al tempo stesso è culturalmente forte, connotata. La realtà è che quello che interessa più a Berlusconi è trovare uno strumento che sia sufficientemente flessibile e agile da non doverlo legare alla vita del partito. Il Pd ed il Pdl sono partiti in cui c’è un livello di conflittualità molto alto. Il Tea Party diventerebbe una sorta di movimento del Presidente con una piattaforma politica ben definita. Però mi sembra un’operazione molto complicata. Quella non è una roba che ci si inventa da un momento all’altro: negli Stati Uniti il Tea Party esce in questa forma perché c’è una tradizione (tanto democratica che repubblicana) di far nascere i movimenti e i gruppi in questo modo. In Europa non sono quella cosa lì; potrebbe essere un’arma in più in una campagna elettorale in cui ci sono dei gruppi di elettori, fans del candidato presidente ma, se uno vuole fare l’accademico, nel giudicare questa organizzazione non ci sarebbe mai nulla di paragonabile a quello che accade in America. Il Tea Party è veramente una cosa americana anche se l’agenda può essere simile a quella di alcuni partiti europei.

Per concludere: ritieni che il Tea Party sia un fenomeno politico passeggero o un modello vincente ed un domani potremmo pentirci di averlo sottovalutato?

Ormai non lo sottovaluta nessuno. È comunque un movimento forte, al’inizio è stato molto sottovalutato e anche deriso, spesso è stato deriso dalla grande stampa e dalla stampa liberal etc. e questa è stata una cosa sbagliata perché li ha ovviamente compattati. In questo modo i gruppi del Tea Party sono riconosciuti come quelli trattati male dalla solita stampa liberal; è un meccanismo che funziona spessissimo nel sistema politico americano. Tutto dipenderà da come saranno gestiti questi due anni. Non me la sento di fare una previsione: si tratta di un paese che potrebbe continuare ad andare male chiunque governi. Con un Congresso repubblicano e un Presidente democratico può esserci sia un effetto di ulteriore galvanizzazione per cui si aspetta il count down del 2012 per vedere chi conta di più e chi è più forte, oppure potrebbe esserci anche un raffreddarsi di questo movimento. I trent’anni precedenti ci dicono che i gruppi dirigenti del partito repubblicano sono stati molto bravi a dare una sponda a questi gruppi, a blandirli e ad allearcisi: è quello che è successo con la presidenza Reagan e con la presidenza Bush. Questa sarebbe un’ulteriore spinta a destra e forse se ci fosse veramente una frattura molto forte nel partito repubblicano le elezioni del 2012 sarebbero compromesse; quindi è tutto da vedere se questa ulteriore radicalizzazione rischia di far deragliare il Partito Repubblicano o se ci sarà qualcuno sufficientemente abile a tenere insieme le diverse anime e rendere il candidato presidente nel 2012 un candidato credibile. Sul lunghissimo periodo il coltello dalla parte del manico ce l’hanno però i democratici, nel senso che la base del Tea Party è prevalentemente di maschi, di una certa età, bianchi: da un punto di vista demografico la maggioranza che si sta restringendo. I giovani e le minoranze che sono in crescita da un punto di vista demografico sono quelli che votano maggiormente per il Partito Democratico. Se il Partito Democratico è politicamente in grado di mantenere un’alleanza con questi gruppi isolati da una posizione di governo come quella della Presidenza ed anche in futuro di costruire un’alleanza con essi, in realtà non hanno molto da temere. Però questa crisi sta mettendo alla prova proprio questi legami; anche i sindacati che sono grandi sostenitori del Partito Democratico sono piuttosto disillusi ed hanno conosciuto una crisi che si avverte ancora molto forte in questo momento, quindi la partita è aperta e la variabile che incide più di tutte sul consenso e sulla riuscita politica di queste organizzazioni è la crisi. E la crisi economica è talmente seria, sta talmente cambiando la faccia degli Stati Uniti, che è difficile fare delle previsioni.

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da Linkredulo di Martedì 02 Novembre 2010- http://www.linkredulo.it/esteri/1555-qil-tea-party-un-fenomeno-da-non-sottovalutareq-mattia-diletti-ci-racconta-lavversario-numero-uno-di-obama.html