lunedì 28 marzo 2011

Il pacifismo interessato di una destra cialtrona

La guerra in Libia è certamente un fatto estremamente complesso, da tempo avrei voluto scriverci qualcosa senza riuscirci. Stranamente a destra invece c'è una certa libertà e facilità d'esterazione a riguardo: hanno cominciato a mostrare insofferenza nei confronti della guerra Giuliano Ferrara e Vittorio Sgarbi, gli si sono accodati Libero, la Lega e fronde del Pdl. Mostrano non l'indignazione dovta all'ingiustizia dei bombardamenti su un suolo straniero, ma il fastidio di chi dormiva sogni tranquilli ed è stato disturbato bruscamente dai vicini di casa che litigano.


Che la prontezza con la quale la Francia ha dato il via alle operazioni militari pochissimo tempo dopo la risoluzione dell'Onu sia tutt'altro che disinteressata lo sanno anche i sassi; che la democrazia non la si esporti con le bombe in Occidente non lo si deve certo andare a spiegare a quelle milioni di persone che nel 2003 si sono mobilitate contro la guerra in Iraq. Ma come si permettono di pronunciare queste motivazioni quei cialtroni che in Italia quella guerra (e quella in Afghanistan) l'hanno votata, finanziata e difesa proprio con le motivazioni dell'esportazione della democrazia e della liberazione del popolo iraqueno (che in quella circostanza non aveva mostrato alcuna volontà di essere liberato..)? Dovrebbero ancora chiedere scusa per aver avallato dai loro comodi scranni a Montecitorio, dalle loro scrivanie e le loro tribune una guerra infame che ha causato oltre mezzo milione di morti, ed invece cazzeggiano allegramente nelle tribune televisive visibilmente divertiti nell'usare le argomentazioni che 8 anni fa venivano usata per spiegare perché le loro scelte erano sbagliate.



Questa volta dalla guerra l'Italia ha solo da perdere in termini economici e politici: la Libia di Gheddafi ha col tempo tutelato gli interessi economici italiani e garantito il controllo dell'immigrazione clandestina attraverso i lager per migranti. Di fronte ad una simile oscenità il governo di centro-destra si è sempre comportante negando, minimizzando, facendo capire che era disposto a tutto pur di tenere i clandestini lontani dall'Italia.



Oggi l'eventualità che Gheddafi non sia più a capo del paese dall'altra parte del Mediterraneo pone due questioni: gli interessi economici ed energetici italiani che fine faranno? Dovremo aspettarci ondate migratorie incontrollate? La prima questione è tutt'altro che una sciocchezza e meriterebbe di essere affrontata seriamente, senza cinismo ma con l'idea di costruire una duratura convivenza pacifica nel Mediterraneo. E' evidente però come alla maggioranza di centro-destra, che sul contrasto all'immigrazione clandestina ha costruito immense rendite elettorali, è il secondo problema quello che preoccupa e spaventa maggiormente e che il primo è affrontato con la logica cinicamente arraffona di chi pensava di mantenere eternamente rendite di posizione grazie alle garanzie offerte da un dittatore (a cui magari è lecito anche vendere armi).



Ogni volta che questi signori aprono bocca si comprende quanto dei moti di liberazione nel Maghreb (prima ancora dell'intervento militare) avrebbero volentieri fatto a meno e quanto li infastidisce che le briciole che si spartiranno le potenze della coalizione dei volenterosi saranno molto probabilmente tolte all'Italia. Abbiano almeno il coraggio di dire che in nome degli interessi economici e del contrasto all'immigrazione clandestina sarebbero disposti a vendersi l'anima al diavolo piuttosto che scomodare nobili ragioni ideali con le quali, la storia recente ce lo insegna, non hanno niente a che fare.



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da LINKREDULO di LUNEDì 28 MARZO 2011 - http://www.linkredulo.it/politica/1908-il-pacifismo-interessato-di-una-destra-cialtrona.html

venerdì 25 marzo 2011

La vocazione politica della scuola pubblica

Il Quotidiano di Puglia riportava ieri la notizia di un genitore del quartiere Paolo VI di Taranto che recatosi presso la scuola del figlio durante le ore di doposcuola pretendeva portarlo con sé per accompagnarlo a calcetto. La notizia sta nell’epilogo di questa vicenda: di fronte alle rimostranze del docente che tentava di spiegare come non fosse lecito irrompere nell’aula sottraendo il ragazzo all’obbligo scolastico il genitore ha prima risposto “Mio figlio deve giocare a calcio, se diventa calciatore, può comprare te e tutta la scuola” per poi passare direttamente alle vie di fatto aggredendo il docente.


Quando si co
mmentano fatti del genere l’errore più grande che si possa fare è leggerli con categorie del passato, ad esempio quella della perdita di autorità del docente e della scuola. Fermandosi a questo livello di lettura si possono o rimpiangere i tempi andati, quelli in cui i docenti erano figure temute, dotate della liceità di usare anche le mani come strumento educativo o celebrare la libertà dei nostri tempi in cui ognuno è finalmente libero di abbeverarsi della formazione che meglio crede. Allo stesso modo si può da apocalittici rimpiangere uno stato etico che nella scuola aveva il suo terminale più efficiente o da integrati nei nostri tempi, con presunto spirito liberale, rallegrarsi della pluralità di fonti di formazione oggi a disposizione delle famiglie.

La scuola pubblica non è mai stata neutrale ma sempre in rapporto dialettico con le sfide dei tempo: nata in Occidente con lo scopo di combattere l’analfabetismo, sottrarre le masse alla superstizione ed al potere della religione, ha vissuto nel secondo dopoguerra una lotta tutta al suo interno nella quale le nuove generazioni di studenti e docenti hanno cercato affrancarsi dagli aspetti più autoritari, repressivi e classisti dell’insegnamento (Don Milani docet). Oggi la scuola torna a combattere contro forze a lei esterne, profondamente diverse però da quelle con cui si confrontava alla sua nascita, forze che hanno l’astuzia di costruire un’immagine del tutto falsa del proprio antagonista, quella cioè di un’istituzione neutrale che deve accettare i propri tempi, assecondarne le tendenze, riprodurne i rapporti di forza. Di fronte alla società dei consumi e dello spettacolo, all’epopea della realizzazione di se stesso, alla scuola si chiede infatti di essere ‘democratica’, di non imporre visioni ‘ideologiche’. Poco importa che poi le tendenze che le si chiede di assecondare siano tutt’altro che ‘democratiche’ e ‘post-ideologiche’: cosa c’è di democratico e di post-ideologico nell’idea che il destino degli altri sia secondario rispetto a quello proprio, che il destino collettivo sia frutto del fato, che la dignità di una vita passi solo attraverso il denaro?

Sull’eredità del ’68 e di tutte le battaglie anti-autoritarie ed anti-repressive si è ultimamente ingenerato un’equivoco: chi ieri era contrario a quelle istanze, oggi le rivendica come strumento per legittimare lo status quo e de-politicizzare il presente. C’è in questo una correlazione tra il dibattito sulla scuola pubblica e quello sul Ruby-gate: come chi si indigna per il degrado pubblico che emerge dai festini di Arcore, vero luogo di selezione della classe dirigente del Pdl, viene tacciato di moralismo retrogrado e sessuofobo, così chi si indigna per i tagli alla scuola pubblica ed i finanziamenti alle private viene tacciato di essere statalista, ideologico e di avere un’idea non libera dell’istruzione. I veri eredi del ’68 sarebbero quindi quelli che hanno portato sino a estreme conseguenze la rivoluzione sessuale difendendo la libertà dei potenti di comporre liste elettorali in camera da letto e quelli che hanno portato sino a estreme conseguenze la lotta anti-autoritaria ed anti-classista sul terreno dell’istruzione pubblica difendendo la libertà delle famiglie di rivolgersi a qualunque scuola, pubblica o privato, laica o confessionale, seria o diplomificio che sia.

L’attuale nemico della scuola pubblica però non c’entra niente con la critica anti-autoritaria ed anti-classista che ad essa è stata rivolta dal ’68, da Pasolini, da Don Milani. Ieri quelle critiche erano rivolte contro l’esclusione sociale che la scuola produceva e riproduceva, oggi alla scuola pubblica si chiede di limitarsi a prendere atto di ciò che avviene fuori di essa benché questo produca esclusione sociale. La scuola pubblica è nata per i figli del Paolo VI, si è rinnovata per i figli del Paolo VI ed oggi deve difenderli da chi li seduce e li conquista con la lusinga del denaro facile nascondendogli che solo 1 su 1000 ce la farà e che il modello sociale basato sulla delegittimazione della scuola pubblica e dei beni pubblici tutti lascerà gli altri 999 per strada.

Non esistono grandi vecchi che ordiscono complotti contro i beni pubblici, ma un sistema sorretto da tante bocche fameliche interessate a trarre beneficio dal loro degrado. Questo sistema ha già da parecchio tempo dichiarato guerra alla scuola pubblica. Ad essa spetta l’alternativa di difendersi o di passare al contrattacco; all’opinione pubblica sensibile alla solidarietà sociale ed alla salute dei beni comuni il dovere di non lasciarla sola.


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da LINKREDULO di Venerdì 25 Marzo 2011 - http://www.linkredulo.it/scuola-e-universita/1898-la-vocazione-politica-della-scuola-pubblica.html

domenica 6 marzo 2011

"Il nostro patriottismo nella sua forma più alta fu uguaglianza di diritti". Intervista a Maurizio Viroli.

Continuiamo il nostro approfondimento sul Risorgimento e sull’Inno di Mameli a partire dall’esegesi fatta da Roberto Benigni al Festival di Sanremo. Oggi intervistiamo Maurizio Viroli, filosofo della politica e storico del pensiero politico, professore presso l’Università della Svizzera Italiana (Lugano) e di Princeton ed autore di una vasta produzione sui temi del repubblicanesimo e del patriottismo.

Nei suoi scritti lei sostiene che l’idea di Patria che ha guidato il Risorgimento e ne è stata in qualche misura egemone sia un’idea di patria come comunità di uomini liberi, rispettosa degli altri popoli e delle altre nazioni e non fondata sui confini territoriali e la discendenza. Prima di chiederle un parere sull’esegesi di Benigni le chiedo come colloca nella sua lettura del Risorgimento l’Inno di Mameli.

L’Inno di Mameli si colloca dentro l’idea di Patria che lei ha descritto: Mameli si ispira alle idee mazziniane, è un mazziniano, ha un’idea di Patria legata alla libertà comune di un popolo. Questo fu il concetto di Patria che ebbe maggiore incidenza dal punto di vista culturale e politico in Italia sicuramente fino al 1860, poi le cose cambiarono in una direzione che io descriverei come l’emergere di elementi e concetti nazionalisti all’interno di una teoria patriottica. Per Mazzini la Patria è la libertà e non è il territorio. Lo dice precisamente proprio con queste parole fin dai primi saggi sul tema ed anche negli ultimi (ad esempio nello scritto Nazione e nazionalità in Italia del 1871). Quando sostiene che la Patria non è il territorio ed aggiunge che la lingua, la religione, la razza sono soltanto degli indicatori della Patria e che questa esiste solo laddove c’è la libertà comune (e questo per lui voleva dire laddove c’è un regime repubblicano), Mazzini vuole spiegare che la Patria è un concetto di carattere etico-politico e non un concetto, come dicono gli studiosi, ascrittivo, cioè più o meno naturale. Questa concezione della Patria ha ispirato il nostro Risorgimento soprattutto in due sensi: c’è vera Patria soltanto quando esiste uguaglianza di diritti civili e politici all’interno e la Patria è Patria tra le altre Patrie. Per Mazzini quindi non solo non era ammissibile in alcun modo l’aggressione e la conquista nei confronti di altri popoli, ma anche che dovere preciso del cittadino, del patriota, era schierarsi a fianco di tutti i popoli che lottano per la libertà. Questo è stato il nostro patriottismo nella sua forma più alta, soprattutto fino al 1860. È evidente che c’erano anche elementi di nazionalismo in altre concezioni della nazione e dell’emancipazione nazionale, ma nella sua forma che ebbe più incidenza storica il nostro patriottismo fu non solo distinto, ma addirittura opposto al nazionalismo.


Quindi a suo parere raccontare il Risorgimento a partire dall’Inno di Mameli significa fornirne un racconto parziale?

L’Inno di Mameli rappresenta a mio parere una concezione del patriottismo che, certo, non raccoglie tutte le versioni del patriottismo italiano, ma ne rappresenta una versione importante. Il vero inno che mosse gli animi e i cuori del Risorgimento fu però Va’ Pensiero: quello è ancora più chiaramente un inno di libertà. L’Inno di Mameli aveva inizialmente come titolo Canto degli italiani, doveva essere un canto che esprimeva la volontà di rinascita di un popolo. Il concetto del destarsi, presente nell’Inno con la frase “l’Italia s’è desta”, è stato un concetto chiave del nostro Risorgimento. La parola “risorgimento” ha un’antica radice religiosa: il rinascere è proprio dello spirito umano che ritrova se stesso liberandosi dalla corruzione, dalla degenerazione, dalla debolezza morale. Il Risorgimento non fu un ritorno a forme politiche del passato, ma era ispirato dal trovare dentro se stessi la forza morale per il riscatto.


Nello stesso Inno però si fa riferimento al passato, addirittura proponendo una continuità con l’Impero romano. Benigni questo l’ha evidenziato, parlando della Battaglia di Zama ha detto che è stata una battaglia vinta dagli italiani. Come conciliare l’idea di Patria come libertà con questi aspetti che invece sono fortemente legati alla discendenza ed al territorio?

Questo è uno di quegli aspetti dell’Inno di Mameli che non si conciliano con l’idea di Patria repubblicana. Nella ricerca di punti di riferimento nel passato i patrioti italiani avevano bisogno di riferirsi anche a dei momenti di gloria militare anche perché il problema principale, il più urgente ed il più drammatico, era quello di vincere sul campo con gli austriaci e quindi non andavano tanto per il sottile, non distinguevano battaglie per la libertà e battaglie che, come quella di Zama, furono battaglie di carattere espansionistico, di aggressione. Quello da lei citato è un esempio della presenza di elementi ibridi, di ambiguità nel linguaggio politico dell’Inno di Mameli, e del resto è difficile immaginare un inno politico che sia dal punto di vista intellettuale e teorico perfetto: ce ne sono pochissimi.


Se avesse potuto parlare a Benigni prima della sua performance al Festival che consigli gli avrebbe dato per raccontare il Risorgimento esaltando quelle che lei ritiene essere le sue parti migliori?

Gli avrei consigliato di fare ascoltare Va’ Pensiero e di spiegare quelle parole, di spiegare come vi fosse presente uno spirito religioso. Il testo di Va’ Pensiero è tratto dalla Bibbia e Verdi, che non andava in chiesa ma aveva un animo religioso, lo capì benissimo e si innamorò di quelle parole. Avrei detto a Benigni di spiegare bene che cosa vuol dire “le memorie nel petto riaccendi” e “infondere al patire virtù”. L’idea del Risorgimento era proprio questa: coltivare, far rivivere nell’animo le memorie antiche di libertà italiana per trasformare l’animo servile, l’animo avvilito nelle virtù dalla dominazione straniera in forza morale che potesse guidare il riscatto. Virtù vuol dire questo: è forza morale, è coraggio, consapevolezza della propria dignità. Gli avrei anche detto di sottolineare il fatto che Verdi fa cantare queste parole di riscatto a un altro popolo: agli ebrei schiavi in Babilonia. Certo, c’era in questo un’esigenza di censura: non poteva Verdi far cantare quelle parole a degli italiani. Ma è anche vero che è significativo che il nostro maggiore musicista scegliesse come protagonisti dei popoli stranieri o addirittura, come nel caso dell’opera Giovanna d’Arco del ’47, facesse parlare un’eroina straniera. Basterebbe questo per far capire la differenza del nostro Risorgimento con altre esperienze di emancipazione nazionale. Ad esempio Wagner fa solo parlare degli Dei, dei personaggi mitologici tedeschi.


Benigni non ha lesinato il racconto di eventi ed aspetti del Risorgimento particolarmente violenti. Oggi, dopo la lezione della II guerra mondiale che ha insegnato all’Europa la necessità della pace ed il reciproco riconoscimento dei confini nazionali, ai tempi dell’integrazione europea, in che maniera ritiene che sia giusto ricordare e raccontare gli eventi bellici del Risorgimento che invece parlano di un’Europa divisa con le sue parti in lotta tra loro?

Ritengo che dal punto di vista di una educazione alla cittadinanza sia assolutamente necessario ricordare che l’emancipazione dei popoli dalla dominazione straniera o da regimi autoritari ed oppressivi richiede necessariamente l’uso della violenza rivoluzionaria. Gli austriaci non se ne sarebbero mai andati con petizioni o con raccolte di firme, così come il fascismo non sarebbe mai caduto con dimostrazioni (che impediva) o con mezzi pacifici. Dal punto di vista educativo è assolutamente sbagliato insegnare che la libertà non debba in determinate circostanza, come quelle che ho descritto, essere conquistata con la violenza e con il sacrificio. Per questo non condivido le opinioni dei colleghi che ritengono che il Risorgimento non debba essere celebrato perché fu carico di elementi di militarismo: alcuni colleghi parlano della ‘comunità dei guerrieri’ come elemento caratteristico della nazione emersa nel nostro Risorgimento, altri sottolineano il fatto che si fa molta enfasi sul sacrificio di sé nel campo di battaglia, sul martirio. Da studioso che si ispira sempre a Macchiavelli, da realista quale sono, devo far notare che senza le vittorie militari, senza potenza militare al servizio della libertà e senza la capacità di molti giovani al sacrificio di sé l’Italia non sarebbe diventata libera, non sarebbe diventata una, così come nella resistenza antifascista se non ci fossero state vittorie militari con un uso della violenza e della guerra, se non ci fosse stata la volontà di sacrificio di molti, a quest’ora saremmo ancora con le camice nere e canteremmo Giovinezza.


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da LINKREDULO di Domenica 6 Marzo 2011 - http://www.linkredulo.it/opinioni/1828-qil-nostro-patriottismo-nella-sua-forma-piu-alta-fu-uguaglianza-di-dirittiq-intervista-a-maurizio-viroli.html