giovedì 16 giugno 2011

PRECARIO SARÀ LEI! - La questione sociale al centro del dibattito politico

La crisi esplosa nell'autunno 2008 è stato un vero spartiacque, un cambio d'epoca di cui forse non è ancora possibile cogliere appieno la portata. Lo testimonia il brusco cambiamento del dibattito politico, per circa un ventennio tutto imperniato attorno a proposte di privatizzazione dei beni pubblici, tagli a pubblica istruzione e sanità, flessibilizzazione dei rapporti di lavoro, deregolamentazione del mercato e della finanza etc. La destra la faceva da padrona mostrando il volto rampante ed aggressivo di chi ha capito i tempi e ne è l'interprete naturale, la sinistra provava a rincorrerla su questo terreno mostrando una sconfortante subalternità.

Il 15 Agosto 2009 all'indomani delle elezioni europee che avevano sancito un'ennesima sconfitta delle forse riformiste, in un editoriale sul Messaggero, col sconsueto fiuto politico Romano Prodi diceva:

"la causa della sconfitta di questa grande stagione è da individuare nel fatto che, mentre in teoria il nuovo labour e l’ulivo mondiale erano una fucina di novità, nella prassi di governo di Tony Blair e i governi che ad esso si erano ispirati si limitavano ad imitare le precedenti politiche dei conservatori inseguendone i contenuti e accontentandosi di un nuovo linguaggio.

Per circa un ventennio questo è stato il tenore del dibattito politico e non a caso lo spartiacque tra i buoni ed i cattivi era dato dalla collocazione antecedente alla caduta del Muro di Berlino: l'accusa di esser stati comunisti (o, come si dice in America, socialisti) significava essere estranei ai tempi nuovi in cui invece la panacea di tutti i mali era il mercato liberato da ogni freno. L'idea che il dibattito politico (e sottolineo, non quello tra gli intellettuali che, poco ascoltati, hanno invece lanciato più d'un campanello d'allarme) propugnava era quella che fino all'89 avevamo assistito ad un film in cui si fronteggiava l'occidente capitalista al socialismo reale. Alla fine del film il secondo aveva irrimediabilmente vinto ed essendo rimasto sul campo solo il primo per rappresentare il mondo bastava una fotografia, statica, immobile che raffigurava il vincitore. Peccato che gli anni passavano e quel vincitore a guardarne le metamorfosi da vicino e senza pregiudizi diventava più brutto, più ingiusto, più diseguale. Come un treno in corsa il mantra neo-liberista continuava però indisturbato: 'ce lo chiede la globalizzazione' ripetevano i conducenti di ogni colore.

Nello stesso articolo Prodi scriveva:

"Nel frattempo il cambiamento della società continuava secondo le linee precedenti: una crescente disparità nelle distribuzione dei redditi, un dominio assoluto e incontrastato del mercato, un diffuso disprezzo del ruolo dello Stato e dell’uso delle politiche fiscali, una presenza sempre più limitata degli interventi pubblici di carattere sociale".

La crisi ha insomma fatto ripartire la pellicola facendole percorrere in qualche secondo 19 anni circa, rimettendo al centro del dibattito politico la questione sociale, le disuguaglianze e la difficoltà di affrontarle. Ne è una riprova che anche in quest'ultima tornata amministrativa il tema del lavoro e della precarietà si stato molto frequentato dai due principali vincitori (Pisapia e De Magistris) e che invece due imprenditori, presentatisi ancora una volta come pragmatici e competenti (Moratti e Lettieri) siano stati sonoramente sconfitti. In quest'ottica possiamo leggere l'elezione di Obama proprio all'indomani della crisi dopo una campagna elettorale in cui aveva insistito molto in invettive contro l'America di Wall Street.
Lungi da me pensare che la vittoria di un presidente democratico in America inverta nei fatti una tendenza egemone in Occidente da trent'anni. Figurarsi se penso che possano farlo le elezioni di Pisapia e De Magistris. Ritengo però sia importante cogliere come la domanda centrale nel dibattito politico oggi non sia più 'dove eri prima dell'89?' ma 'dove eri prima del '08?', 'che ruolo hai avuto nelle politiche che hanno portato alla crisi ed impoverito i paesi occidentali?', 'come pensi che se ne esca?'. In questo contesto leggo l'eventualità (fino a qualche anno fa impensabile) che un politico come Nichi Vendola, che nel 2001 sfilava a Genova con il movimento no global mentre uno dei G8 maggiormente interpreti dell'epopea neo-liberista si riuniva, possa aspirare a diventare capo del governo. Nello stesso contesto leggo la difficoltà del Pd ad essere credibile di fronte al suo stesso elettorato visto che ha imbarazzo a rispondere sulla sua collocazione pre-crisi. Lo stesso ed ancor di più vale per Berlusconi: il suo successo, oltre che ad una guerra ad armi tutt'altro che pari, è dovuto all'esser stato un'interprete kitch dell'egemonia reganian-tatcheriana ed oggi che i tempi sono cambiati sembra tremendamente fuori dal mondo. Nessuno, neanche il suo elettorato, crede che la sua proposta possa riguardare il futuro dell'Italia.

Il disagio sociale, il lavoro, l'incertezza del futuro sono quindi le questioni su cui oggi si gioca la partita politica. La sinistra parte avvantaggiata ma non è detto che la destra non sia capace di farsi portavoce di proposte che all'opinione pubblica appaiano più credibili ed immediate. In questo clima di incertezza, soprattutto se la sinistra balbetterà finte risposte, proposte securitarie o autoritarie avranno gioco facile. Per questo non si può non essere della partita e non fare di tutto per vincerla.

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da LINKREDULO DI Mercoledì 01 Giugno 2011 - http://www.linkredulo.it/opinioni/2121-precario-sara-lei-la-questione-sociale-al-centro-del-dibattito-poltico.html

mercoledì 8 giugno 2011

PRECARIO SARÀ LEI! - Noi giovani europei e i nostri fratelli sulla sponda sud del Mediterraneo

Proclamo preliminarmente tutta la mia difficoltà a scrivere degli indignados spagnoli e di qualunque movimento spontaneo che unisca le giovani generazioni occidentali. La situazione dei nati dagli anni '80 in poi è drammatica (me ne occupo in questa rubrica tutte le settimane) e qualunque tentativo essa faccia di riappropriarsi del proprio destino e della propria felicità collettivamente non può che entusiasmarci tutti.

Il vuoto politico dell'ultimo trentennio ed il progressivo peggioramento delle prospettive di vita e di benessere può però spingere ad un'esaltazione incondizionata di tutto ciò che proviene dai giovani (con quante g, prototipo dei luoghi comuni sui giovani, decidetelo voi). È emblematico che sentimenti di simpatia nei confronti degli indignados spagnoli (come in precedenza in Italia nei confronti degli studenti dell'Onda o di quelli mobilitatisi nell'ultimo autunno) provengano da giornali e settori dell'opinione pubblica tutt'altro che contrari negli anni passati alla flessibilizzazione dei rapporti di lavoro ed a tutte le politiche che hanno costruito l'attuale situazione.

Il mio disagio nasce da un ulteriore sospetto: non è che forse tale entusiastico sostegno e spazio che viene dato ai giovani in rivolta sia deleterio proprio per le ragioni di quelle rivolte contribuendo a fenomeni di normalizzazione? L'esaltazione di una generazione in rivolta non rischia di fornire un'immagine troppo consolatoria per le vecchie generazioni che hanno costruito questo mondo ed auto-assolutoria per quelle giovani che possono tornare a casa soddisfatte di essere oggetto d'attenzione del mainstream con un volto pulito?

Pertanto in questo articolo non voglio unirmi al coro di entusiastici sostenitori degli indigados ma voglio provare a porre qualche questione in merito alla loro mobilitazione.

La loro esperienza è estremamente interessante, soprattutto perché segue di pochi mesi quelle avvenute in Tunisia in Egitto (sulla Libia è d'obbligo sospendere il giudizio), culminate con la fuga dei dittatori e l'apertura di una delicata quanto interessante fase di transizione. Il fascino di ciò che è avvenuto in Maghreb dipende anche dall'aver rovesciato l'immagine di un Occidente alfiere dell'unica modernità possibile e del resto del mondo all'affannosa rincorsa dei modelli da esso propugnati o proiettato verso ondate regressive quali il fondamentalismo e l'integralismo islamico. La Rivoluzione dei gelsomini è un fenomeno tutto maghrebino al quale parte dell'Occidente ha guardato come a un'esperienza capace di salvarlo. Da qui all'idea che sia possibile esportare quell'esperienza senza problemi però ce ne passa parecchio.

Ciò non significa che non sia possibile: entrambe le società (quella europea e quella nord-africana) sono unite dall'aver costruito nei decenni passati, per motivi diversi, sistemi sociali che non ha preso in considerazione la questione delle future generazioni ed oggi si trovano a dover fare i conti con il loro senso di esclusione e la loro indignazione. Su quest'affinità c'è da lavorarci cercando di costruire una coscienza mediterranea del problema e delle possibili alternative, senza però dimenticare in tale costruzione le divergenze tra la nostra e la loro condizione. Tale omissione, fatta in nome di un equivoco umanesimo egualitaristico, rischia di compromettere la possibilità di tradurre l'esperienza maghrebina in Europa. E come sanno bene i traduttori, il loro è un lavoro faticoso, tutt'altro che una semplice trasposizione.

Propongo qui tre differenze tra la sponda sud e la sponda nord del Mediterraneo, nella speranza che tenendole presenti sia più facile continuare a guardare alla Rivoluzione dei gelsomini con una maggiore consapevolezza, agevolando e non pregiudicando la possibilità di averla come faro.

Boom economico. Nella storia recente delle società europee c'è il periodo post-bellico ed una produzione di ricchezza e di benessere protrattasi fino alla metà degli anni '70. Le differenze e le ingiustizie sociali sono rimaste (e tante!), ma più di una generazione è riuscita attraverso l'istruzione ed il lavoro ad emanciparsi, comprarsi una casa, permettere ai figli di studiare, comprarsi oltre ai beni di prima necessità una televisione, una macchina etc. Sulla ricchezza prodotta in quel periodo si regge ancora in gran parte l'equilibrio sociale attuale: le giovani generazioni oggi entrano tardi nel mondo del lavoro, guadagno poco con contratti che scadono presto; se non muoiono di fame o vanno a dormire sotto i ponti è solo in virtù delle, sempre più esigue, disponibilità economiche dei genitori accumulate a partire dagli anni del boom. Della situazione sulla sponda sud del Mediterraneo l'esperienza di Mohamed Bouazizi è emblematica: dopo la scuola Mohamed non continua gli studi perché non ha una famiglia capace di sostenerne le spese ed inizia a lavorare. È il capofamiglia (il padre è morto) e dal suo lavoro dipende la sopravvivenza di sette persone. Come lui ce ne sono tantissimi in Tunisia; la situazione oltre che umiliante e senza prospettive di lungo periodo (come in Europa) è anche disperata: se non si lavora non si rischia solo di non costruirsi un futuro, di rimandare (forse all'infinito) la propria indipendenza restando sotto l'ombrello protettivo della famiglia; se non si lavora si rischia tutto, per sé e per i propri cari. Da qui è facile capire la radicalità della rivolta sociale trasformatasi in breve tempo in rivoluzione politica; è facile capire come era impossibile per le autorità lasciarla sfumare aspettando che i giovani tornassero alle loro case ed alle loro cose, ai loro sogni di realizzazione individuale finanziata a tempo indeterminato dalla famiglia.

Democrazia. Porre come discrimine tra l'Occidente ed il resto del mondo la democrazia caricando ciò con un giudizio di valore (del tipo 'noi, in quanto democratici, siamo migliori') è approssimativo oltreché criminale. È invece utile non omettere questo dato in senso analitico, quantomeno per capire quali siano stati il coinvolgimento e le responsabilità delle opinioni pubbliche nella storia politica dei singoli stati e come devono strutturarsi in essi le prospettive emancipative. Le opinioni pubbliche sono sempre responsabili, in democrazia o sotto dittatura, per il voto che esprimono o per il silenzio e la docilità che esercitano. Paradossalmente in presenza di un regime democratico di lunga durata è più difficile voltare radicalmente pagina, chiudere i conti con una fase, anche quando essa sia stata palesemente dannosa. La legittimazione popolare, il consenso attivo dell'opinione pubblica è una perenne assoluzione collettiva. L'epopea neo-liberista, la flessibilità sul mercato del lavoro, il degrado a cui sono stati abbandonati i beni pubblici (quando non sono stati direttamente svenduti), il rifiuto di governare la globalizzazione in nome della razionalità e della giustizia del mercato, in breve, i fenomeni che hanno impoverito l'Occidente gettando tutto il fardello sulle giovani generazioni non sono state realizzate malgrado l'opinione pubblica, ma grazie al sostegno ed all'entusiasmo di quest'ultima. Oggi la transizione democratica in Maghreb (soprattutto in Tunisia) parte da un'equazione che noi non possiamo permetterci: quella tra la dittatura e l'iniquità sociale da un lato e la democrazia e l'uguaglianza dall'altra.

Lavoro e globalizzazione. È il punto a mio parere più delicato: noi siamo in quella parte di mondo ricattata dalla globalizzazione, loro in quella sedotta. Una delle principali novità della globalizzazione è stata la possibilità per le aziende di delocalizzare la produzione negli stati che gli offrivano le condizioni migliori del fisco e non solo (basti pensare alle normative sulla sicurezza sul lavoro). Hanno così tenuto sotto ricatto gli stati dove si erano insediati nel passato, che oggi gli offrono invece condizioni svantaggiose (come ci hanno ribadito le recenti vicende di Pomigliano e Mirafiori). Nei paesi un tempo detti in via di sviluppo che hanno conosciuto una transizione o una maturazione democratica in contemporanea con l'inizio della globalizzazione si sono avviati processi di emancipazione collettiva e di redistribuzione della ricchezza molto interessanti. Ad esempio ciò è successo in Brasile. In quei casi le grandi aziende occidentali hanno deciso di aprire degli stabilimenti produttivi consapevoli che il livello delle tutele, dei salari e della fiscalità era talmente più basso rispetto agli standard occidentali che erano persino possibile concedere delle migliorie, rivoluzionarie per le popolazioni locali ma poco onerose per le corporation se confrontate al loro costo nei paesi industrializzati. Dietro quella spinta emancipativa vi sono quindi anche questioni materiali che non vanno ignorate. Da sole tali condizioni materiali non bastano, non a caso altrove hanno prodotto ulteriore accentramento del potere e concentrazione della ricchezza, ma quando incontrano delle forze operaie e progressiste organizzate sono capaci di far partire delle esaltanti esperienze politiche come quella di Lula in Brasile. In Tunisia ed in Egitto il fenomeno dell'apertura agli investimenti stranieri era cominciato timidamente, frenato soprattutto dall'incognita dell'integralismo islamismo. Non aveva però dato vita a fenomeni redistributivi, contribuendo infatti a creare grandi concentrazioni della ricchezza (basti provare a confrontare la situazione di due cittadini tunisini: Mohammed Bouazizi e Tarek Ben Ammar, miliardario socio in affari di Berlusconi). La rivolta delle giovani generazioni in quei paesi sembra anche dire: vogliamo essere parte di queste novità ed opportunità che la globalizzazione offre e di cui voi, elitès corrotte ed autoritarie, ci espropriate. Qualcosa che noi non possiamo dire perché siamo in quella parte di mondo cui la globalizzazione ha messo in discussione gli standard di benessere prodotti in precedenza.

Prima di chiudere mi preme sottolineare come queste tre questioni sono ben lungi dall'essere dei motivi per i quali noi giovani europei non dovremmo indignarci. Anzi, proprio perché ci stiamo impoverendo, le nostre democrazie sono ostaggio dei poteri economici e mediatici ed il nostro confronto con la globalizzazione ha oscillato tra un balbettio e la regressione verso fenomeni neo-tribali dovremmo ribellarci ancor di più.

Dobbiamo farlo senza ignorare le differenze, con la consapevolezza della nostra condizione e lo sguardo sempre rivolto ai nostri fratelli dall'altra parte del Mediterraneo che hanno sicuramente qualcosa da insegnarci.


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da LINKREDULO di MERCOLEDÌ 25 MAGGIO 2011 - http://www.linkredulo.it/opinioni/2101-noi-giovani-europei-ed-i-nostri-fratelli-sulla-sponda-sud-del-mediterraneo.html

PRECARIO SARÀ LEI! - Autocoscienza precaria

In un libro del 1997, pubblicato in Italia nel 2008 con il titolo “Costruire la propria vita”, il sociologo Ulrich Beck parlando della povertà e della percezione che di essa se ne aveva in quegli anni scriveva: come forzare la porta del treno su cui siamo imprigionati ma sappiamo di doverlo farlo urgentemente.

“È un po’ come stare sulla metropolitana: si viaggia insieme ad altri per un paio di stazioni e poi si scende. Nel momento in cui si sale, si pensa già alla discesa, e ciascuno porta con sé il desiderio di scendere, così come il racconto della propria particolare salita. Incontrandosi, le persone provano grande imbarazzo. La nuova povertà si rintana tra le proprie quattro pareti, cercando di nascondere lo sgradevole sentore di scandalo che essa possiede.”

Questa metafora nata per la povertà credo descriva perfettamente l’autocoscienza della propria condizione professione che per un decennio circa ha accompagnato i giovani precari. Proprio nel ’97 veniva approvato in Italia il pacchetto Treu e la flessibilità faceva il suo esordio nel diritto del lavoro sostenuta e legittimata da tutto l’establishment: la flessibilità, si sosteneva, avrebbe facilitato l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e sarebbe stata una condizione temporanea, utile a saggiarne le qualità, a motivarli e spronarli al miglioramento. Da allora, e ancor di più dopo la legge 30, un’intera generazione non ha fatto altro che salire e scendere dalla metropolitana della povertà, intervallando contratti a termine con periodi di disoccupazione. La cosa che però più di tutte l’ha condannata a tale andirivieni è stato proprio il grande imbarazzo di cui parla Beck: le motivazioni pretestuose addotte per legittimare la flessibilità, in assenza di grandi oppositori e critici, sono state condivise dall’opinione pubblica tutta (anche da chi le subiva). Il meccanismo psicologico che ciò ha innescato è stato dei più perversi: 1) se la precarietà è buona, giusta e temporanea, chi non riesce ad uscirne non può prendersela che con se stesso; 2) se la condizione di precarietà è temporanea come la compagnia di un viaggio in metropolitana è legittimo negare di appartenere alla categoria dei precari contrapponendo ad essa quella della propria identità professionale in costruzione (ad es. non precari della ricerca ma aspiranti luminari/baroni).

Il bagaglio di dolore e frustrazione taciuto per un decennio sotto l’imbarazzo reciproco è stato un fiume carsico che ha distrutto una generazione. Oggi, dopo una crisi che ha svelato l’insostenibilità del modello sociale che ha prodotto la precarietà (e che l’ha difesa proprio in nome della propria sostenibilità) e dopo svariati movimenti giovanili spontanei che hanno rotto la cortina di silenzio su questi temi è davvero difficile ignorare il dramma della precarietà. Ancor più di quei due fattori però pesa l’esempio di fratelli e sorelle maggiori, cugini ed amici più grandi: conosciamo il loro valore ed abbiamo visto il loro entusiasmo sfiorire dopo gli studi giorno dopo giorno insieme alla speranza che questi tempi gli avrebbero potuto offrire qualcosa di buono.

Oggi chi frequenta le scuole e l’università sa che non l’attende niente di buono lì fuori, per chi entra nel mondo del lavoro l’imbarazzo nel guardarsi negli occhi e dirsi precari sentendosi in colpa è scomparso. Non sappiamo ancora come forzare la porta del treno su cui siamo imprigionati ma sappiamo di doverlo farlo urgentemente.

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