mercoledì 8 giugno 2011

PRECARIO SARÀ LEI! - Noi giovani europei e i nostri fratelli sulla sponda sud del Mediterraneo

Proclamo preliminarmente tutta la mia difficoltà a scrivere degli indignados spagnoli e di qualunque movimento spontaneo che unisca le giovani generazioni occidentali. La situazione dei nati dagli anni '80 in poi è drammatica (me ne occupo in questa rubrica tutte le settimane) e qualunque tentativo essa faccia di riappropriarsi del proprio destino e della propria felicità collettivamente non può che entusiasmarci tutti.

Il vuoto politico dell'ultimo trentennio ed il progressivo peggioramento delle prospettive di vita e di benessere può però spingere ad un'esaltazione incondizionata di tutto ciò che proviene dai giovani (con quante g, prototipo dei luoghi comuni sui giovani, decidetelo voi). È emblematico che sentimenti di simpatia nei confronti degli indignados spagnoli (come in precedenza in Italia nei confronti degli studenti dell'Onda o di quelli mobilitatisi nell'ultimo autunno) provengano da giornali e settori dell'opinione pubblica tutt'altro che contrari negli anni passati alla flessibilizzazione dei rapporti di lavoro ed a tutte le politiche che hanno costruito l'attuale situazione.

Il mio disagio nasce da un ulteriore sospetto: non è che forse tale entusiastico sostegno e spazio che viene dato ai giovani in rivolta sia deleterio proprio per le ragioni di quelle rivolte contribuendo a fenomeni di normalizzazione? L'esaltazione di una generazione in rivolta non rischia di fornire un'immagine troppo consolatoria per le vecchie generazioni che hanno costruito questo mondo ed auto-assolutoria per quelle giovani che possono tornare a casa soddisfatte di essere oggetto d'attenzione del mainstream con un volto pulito?

Pertanto in questo articolo non voglio unirmi al coro di entusiastici sostenitori degli indigados ma voglio provare a porre qualche questione in merito alla loro mobilitazione.

La loro esperienza è estremamente interessante, soprattutto perché segue di pochi mesi quelle avvenute in Tunisia in Egitto (sulla Libia è d'obbligo sospendere il giudizio), culminate con la fuga dei dittatori e l'apertura di una delicata quanto interessante fase di transizione. Il fascino di ciò che è avvenuto in Maghreb dipende anche dall'aver rovesciato l'immagine di un Occidente alfiere dell'unica modernità possibile e del resto del mondo all'affannosa rincorsa dei modelli da esso propugnati o proiettato verso ondate regressive quali il fondamentalismo e l'integralismo islamico. La Rivoluzione dei gelsomini è un fenomeno tutto maghrebino al quale parte dell'Occidente ha guardato come a un'esperienza capace di salvarlo. Da qui all'idea che sia possibile esportare quell'esperienza senza problemi però ce ne passa parecchio.

Ciò non significa che non sia possibile: entrambe le società (quella europea e quella nord-africana) sono unite dall'aver costruito nei decenni passati, per motivi diversi, sistemi sociali che non ha preso in considerazione la questione delle future generazioni ed oggi si trovano a dover fare i conti con il loro senso di esclusione e la loro indignazione. Su quest'affinità c'è da lavorarci cercando di costruire una coscienza mediterranea del problema e delle possibili alternative, senza però dimenticare in tale costruzione le divergenze tra la nostra e la loro condizione. Tale omissione, fatta in nome di un equivoco umanesimo egualitaristico, rischia di compromettere la possibilità di tradurre l'esperienza maghrebina in Europa. E come sanno bene i traduttori, il loro è un lavoro faticoso, tutt'altro che una semplice trasposizione.

Propongo qui tre differenze tra la sponda sud e la sponda nord del Mediterraneo, nella speranza che tenendole presenti sia più facile continuare a guardare alla Rivoluzione dei gelsomini con una maggiore consapevolezza, agevolando e non pregiudicando la possibilità di averla come faro.

Boom economico. Nella storia recente delle società europee c'è il periodo post-bellico ed una produzione di ricchezza e di benessere protrattasi fino alla metà degli anni '70. Le differenze e le ingiustizie sociali sono rimaste (e tante!), ma più di una generazione è riuscita attraverso l'istruzione ed il lavoro ad emanciparsi, comprarsi una casa, permettere ai figli di studiare, comprarsi oltre ai beni di prima necessità una televisione, una macchina etc. Sulla ricchezza prodotta in quel periodo si regge ancora in gran parte l'equilibrio sociale attuale: le giovani generazioni oggi entrano tardi nel mondo del lavoro, guadagno poco con contratti che scadono presto; se non muoiono di fame o vanno a dormire sotto i ponti è solo in virtù delle, sempre più esigue, disponibilità economiche dei genitori accumulate a partire dagli anni del boom. Della situazione sulla sponda sud del Mediterraneo l'esperienza di Mohamed Bouazizi è emblematica: dopo la scuola Mohamed non continua gli studi perché non ha una famiglia capace di sostenerne le spese ed inizia a lavorare. È il capofamiglia (il padre è morto) e dal suo lavoro dipende la sopravvivenza di sette persone. Come lui ce ne sono tantissimi in Tunisia; la situazione oltre che umiliante e senza prospettive di lungo periodo (come in Europa) è anche disperata: se non si lavora non si rischia solo di non costruirsi un futuro, di rimandare (forse all'infinito) la propria indipendenza restando sotto l'ombrello protettivo della famiglia; se non si lavora si rischia tutto, per sé e per i propri cari. Da qui è facile capire la radicalità della rivolta sociale trasformatasi in breve tempo in rivoluzione politica; è facile capire come era impossibile per le autorità lasciarla sfumare aspettando che i giovani tornassero alle loro case ed alle loro cose, ai loro sogni di realizzazione individuale finanziata a tempo indeterminato dalla famiglia.

Democrazia. Porre come discrimine tra l'Occidente ed il resto del mondo la democrazia caricando ciò con un giudizio di valore (del tipo 'noi, in quanto democratici, siamo migliori') è approssimativo oltreché criminale. È invece utile non omettere questo dato in senso analitico, quantomeno per capire quali siano stati il coinvolgimento e le responsabilità delle opinioni pubbliche nella storia politica dei singoli stati e come devono strutturarsi in essi le prospettive emancipative. Le opinioni pubbliche sono sempre responsabili, in democrazia o sotto dittatura, per il voto che esprimono o per il silenzio e la docilità che esercitano. Paradossalmente in presenza di un regime democratico di lunga durata è più difficile voltare radicalmente pagina, chiudere i conti con una fase, anche quando essa sia stata palesemente dannosa. La legittimazione popolare, il consenso attivo dell'opinione pubblica è una perenne assoluzione collettiva. L'epopea neo-liberista, la flessibilità sul mercato del lavoro, il degrado a cui sono stati abbandonati i beni pubblici (quando non sono stati direttamente svenduti), il rifiuto di governare la globalizzazione in nome della razionalità e della giustizia del mercato, in breve, i fenomeni che hanno impoverito l'Occidente gettando tutto il fardello sulle giovani generazioni non sono state realizzate malgrado l'opinione pubblica, ma grazie al sostegno ed all'entusiasmo di quest'ultima. Oggi la transizione democratica in Maghreb (soprattutto in Tunisia) parte da un'equazione che noi non possiamo permetterci: quella tra la dittatura e l'iniquità sociale da un lato e la democrazia e l'uguaglianza dall'altra.

Lavoro e globalizzazione. È il punto a mio parere più delicato: noi siamo in quella parte di mondo ricattata dalla globalizzazione, loro in quella sedotta. Una delle principali novità della globalizzazione è stata la possibilità per le aziende di delocalizzare la produzione negli stati che gli offrivano le condizioni migliori del fisco e non solo (basti pensare alle normative sulla sicurezza sul lavoro). Hanno così tenuto sotto ricatto gli stati dove si erano insediati nel passato, che oggi gli offrono invece condizioni svantaggiose (come ci hanno ribadito le recenti vicende di Pomigliano e Mirafiori). Nei paesi un tempo detti in via di sviluppo che hanno conosciuto una transizione o una maturazione democratica in contemporanea con l'inizio della globalizzazione si sono avviati processi di emancipazione collettiva e di redistribuzione della ricchezza molto interessanti. Ad esempio ciò è successo in Brasile. In quei casi le grandi aziende occidentali hanno deciso di aprire degli stabilimenti produttivi consapevoli che il livello delle tutele, dei salari e della fiscalità era talmente più basso rispetto agli standard occidentali che erano persino possibile concedere delle migliorie, rivoluzionarie per le popolazioni locali ma poco onerose per le corporation se confrontate al loro costo nei paesi industrializzati. Dietro quella spinta emancipativa vi sono quindi anche questioni materiali che non vanno ignorate. Da sole tali condizioni materiali non bastano, non a caso altrove hanno prodotto ulteriore accentramento del potere e concentrazione della ricchezza, ma quando incontrano delle forze operaie e progressiste organizzate sono capaci di far partire delle esaltanti esperienze politiche come quella di Lula in Brasile. In Tunisia ed in Egitto il fenomeno dell'apertura agli investimenti stranieri era cominciato timidamente, frenato soprattutto dall'incognita dell'integralismo islamismo. Non aveva però dato vita a fenomeni redistributivi, contribuendo infatti a creare grandi concentrazioni della ricchezza (basti provare a confrontare la situazione di due cittadini tunisini: Mohammed Bouazizi e Tarek Ben Ammar, miliardario socio in affari di Berlusconi). La rivolta delle giovani generazioni in quei paesi sembra anche dire: vogliamo essere parte di queste novità ed opportunità che la globalizzazione offre e di cui voi, elitès corrotte ed autoritarie, ci espropriate. Qualcosa che noi non possiamo dire perché siamo in quella parte di mondo cui la globalizzazione ha messo in discussione gli standard di benessere prodotti in precedenza.

Prima di chiudere mi preme sottolineare come queste tre questioni sono ben lungi dall'essere dei motivi per i quali noi giovani europei non dovremmo indignarci. Anzi, proprio perché ci stiamo impoverendo, le nostre democrazie sono ostaggio dei poteri economici e mediatici ed il nostro confronto con la globalizzazione ha oscillato tra un balbettio e la regressione verso fenomeni neo-tribali dovremmo ribellarci ancor di più.

Dobbiamo farlo senza ignorare le differenze, con la consapevolezza della nostra condizione e lo sguardo sempre rivolto ai nostri fratelli dall'altra parte del Mediterraneo che hanno sicuramente qualcosa da insegnarci.


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da LINKREDULO di MERCOLEDÌ 25 MAGGIO 2011 - http://www.linkredulo.it/opinioni/2101-noi-giovani-europei-ed-i-nostri-fratelli-sulla-sponda-sud-del-mediterraneo.html

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