lunedì 21 febbraio 2011

“L’esegesi di Benigni? Un’appassionata apologia del nazionalismo risorgimentale”. Intervista ad Alberto Mario Banti.

Albero Mario Banti è Ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Pisa. Ha recentemente pubblicato per Laterza “Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo”, un testo fortemente critico nei confronti dell’idea di nazione che muove il Risorgimento, imperniata su quelle che lui chiama tre “figure profonde”: la nazione come famiglia, come comunità sacrificale e come comunità sessuata. Dopo l’esegesi dell’Inno di Mameli proposta da Roberto Benigni al Festival di Sanremo l’abbiamo contattato per sentire cose ne pensasse.

Cantando l’inno di Mameli come l’avrebbe cantato un ragazzo che partecipava ai moti risorgimentali, Benigni ha detto “lo canta pensando al futuro, il futuro che siamo noi”. A che futuro pensava chi ha partecipato al Risorgimento?

Chi ha partecipato al Risorgimento pensava a un futuro con uno Stato dotato di una Costituzione, di istituti rappresentativi, naturalmente nella cornice di uno Stato unitario. Il problema è che lo Stato che si forma dall’esperienza risorgimentale è anche uno Stato-Nazione e cioè l’idea fondante dell’esperienza risorgimentale è un’idea nazionale declinata con valori simbolici che non so come altro definire se non nazionalistici. Mi sembra che l’altra sera Benigni nella rilettura di un testo fortemente nazionalista come quello di Mameli non si sia limitato a fare l’esegesi, ma abbia fatto una specie di appassionata apologia del nazionalismo risorgimentale.

Cosa non condivide di questa “appassionata apologia”?

Benigni ha preso al valore facciale tutto ciò che c’è nell’Inno di Mameli, quindi ha accettato come valido il discorso nazionalista ottocentesco che è un discorso dal quale si scoprono le seguenti cose: noi italiani e italiane del 2011 deriviamo dai romani che avevano un esercito bellissimo e che faceva paura a tutti, che deriviamo anche, evidentemente in linea diretta, dai combattenti dei comuni della Lega lombarda (tardo XXII secolo); poi deriviamo anche dai palermitani che si ribellano contro gli angioini, da Francesco Ferrucci, da Balilla. Questa è una visione della storia tipica del nazionalismo ottocentesco, ma più di un secolo di storiografia scientifica ha mostrato essere infondata: che rapporto abbiamo con i romani? Quale sarebbe il nesso che ci lega ai romani se non una mitografia che nasce nel Risorgimento e prospera ed esplode durante il fascismo? Che rapporto abbiamo con chi ha combattuto nel 1176 contro l’imperatore Barbarossa? Di certo quelle persone, o chi si è ribellato a Palermo per i Vespri, chi difendeva la Repubblica di Firenze nel 1530 combattevano per motivi del tutto altri rispetto all’idea di Italia o di nazione italiana. Pertanto ripresentare il corso storico dell’Italia in questa forma mi sembra una grave distorsione; per di più significa ripresentare la storia d’Italia come se fosse una grande, infinita battaglia. Poi l’aspetto veramente inquietante del discorso di Benigni, non so quanto ne fosse consapevole, è che uno dei punti fondamentali dell’Inno di Mameli è l’esaltazione dell’eroismo sacrificale, il dover morire per la patria come valore fondante. È chiaro che questo è un valore fondante per un movimento politico-militare, cioè che deve organizzare delle azioni militari per realizzare i propri obiettivi politici. Ma noi oggi, nella Repubblica italiana nel 2011 dobbiamo porre al centro del nostro orizzonte valoriale l’eroismo sacrificale? Che voleva dire Benigni: che quando Bossi evoca i fucili, le pallottole, i lombardi che scendono per strada, quelli che invece si sentono italiani devono stringersi a coorte, pigliare i fucili e offrire il petto ai proiettili nemici? Sono discorsi enormemente pericolosi, detti con leggerezza ed accolti dalle più alte cariche dello Stato con una leggerezza che mi spaventa molto.

In ogni mito fondativo c’è una componente di violenza. Perché in quella risorgimentale dovrebbe essere più problematico riconoscersi rispetto a quella di altri miti fondativi?

Intanto non capisco perché, se proprio abbiamo bisogno di trovare un epos fondativo violento, dobbiamo tornare al Risorgimento. A meno che non vogliamo rilanciare un’ideologia nazionalista. Perché dobbiamo andare al Risorgimento? La risposta è semplice: perché riteniamo collettivamente, in particolare intellettuali, giornalisti e politici del centro-sinistra hanno ritenuto negli ultimi 15 anni, che la Resistenza non sia un mito fondativo che può andar bene perché disturba il fascista che è in noi, o i fascisti che sono tra noi. È paradossale ma è così. Io pensavo l’altra sera mentre ascoltavo Benigni: ma se sente il bisogno di coltivare un epos sacrificale perché non ha fatto il commento di Bella ciao invece di fare il commento dell’Inno di Mameli? Certo, è un testo che è anche l’inno nazionale della Repubblica italiana, ma giustamente c’era stata una rimozione collettiva del contenuto del testo e dei valori e nessuno se lo ricordava veramente, o al massimo si ricordava la prima strofa. Perché andare a pescare il nazionalismo risorgimentale? O perché fare l’altra cosa assolutamente tremenda che Benigni faceva con grande leggerezza l’altra sera di dire ‘gli italiani sono buoni, sono stati sfruttati dalla Lega lombarda in avanti mentre gli stranieri sono violenti, brutali, selvaggi, stupratori’, e questi stranieri sarebbero tedeschi, francesi, spagnoli, austriaci: mi pare un modo strano di coltivare l’apertura all’Europa che invece è stata positivamente coltivata negli ultimi quarant’anni in Italia. Io da tempo penso che riassumere il Risorgimento in modo acritico come mito fondativo del nostro vivere comune contiene il rischio di rilanciare un nazionalismo selvaggio e l’altra sera questo rischio è diventata realtà.

Su due elementi messi in evidenza da Benigni è difficile non trovarsi tutti d’accordo: l’unificazione nazionale come momento di emancipazione sullo scenario internazionale e di straordinaria partecipazione civile. Quella di Benigni sembrava più un’esortazione per il presente che un discorso sul passato. Come pensa a riguardo?

Se la partecipazione civica si traduce nel fare la guerra… Capisco che è una partecipazione civica che appartiene a una stagione che ha scandito l’Occidente in cui i movimenti politici erano anche movimenti militari: era così per il Risorgimento, è stato così per il comunismo bolscevico, per il fascismo, per il nazismo e per molti altri. Adesso però forse avremmo altri modi di declinare la partecipazione civica che non sia un fantasticare di ‘stringerci a coorte’, ed elogiare la bellezza e la grandezza dell’esercito romano e star lì a ragionare sul fatto che ‘è bello morire in battaglia’ e che ‘è una cosa meravigliosa’: no, è uno schifo, è un orrore! I militanti del Risorgimento meritano rispetto come chiunque altro abbia militato in un movimento politico-militare, ma che tutto ciò serva a noi oggi mi sembra strano: stiamo in guerra con qualcuno? O dobbiamo esser pronti a difenderci dall’attacco di qualcuno? O quella è una delle priorità politiche che la nostra collettività ha? Oppure si pensa che in caso di secessione dobbiamo cominciare a spararci reciprocamente?

Cosa ne pensa del riferimento fatto da Benigni al ruolo delle donne nel Risorgimento citando i casi di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, Virginia Oldoini, Anita Garibaldi?

È un modo banalizzante e manipolatorio di presentare questa vicenda. C’erano delle donne, molte donne, che partecipavano con entusiasmo aspettandosi, sperando, argomentando intorno alla loro partecipazione piena alla vita della comunità che avrebbe dovuto trasformarsi uno stato unitario. Il punto è che le donne sono sistematicamente marginalizzate: quando Cristina Trivulzio di Belgiojoso va a Roma a difendere la Repubblica romana insieme ad altre note patriote di primo piano le mettono a curare i servizi di infermeria, mica le fanno partecipare ai lavori della Costituente! A Stato unitario compiuto le donne non hanno diritti politici e i diritti civili sono una catastrofe: se si va a vedere il trattamento delle donne nel Codice civile del 1865, non hanno alcuno spazio, alcuna autonomia civile, non posso fare le avvocate, le magistrate, non possono svolgere determinate professioni perché in Italia, come in tutta l’Europa del XIX secolo, circola una cultura pesantemente misogina. Allora celebrare la partecipazione delle donne è pura retorica, retorica distorsiva per altro, perché decontestualizza un elemento dal quadro complessivo della società del XIX secolo.

--------------------------------------------------------------------------------------------------------------


da Linkredulo di Lunedì 21 Febbraio 2011 - http://www.linkredulo.it/opinioni/1781-lesegesi-di-benigni-unappassionata-apologia-del-nazionalismo-risorgimentale-intervista-di-alberto-mario-banti.html

1 commento:

Anonimo ha detto...

secondo me Benigni ha fatto una cosa fantastica e molto difficile...non ha preso l'argomento in modo leggero...ha fatto qualche battuta prima e qualche battuta dopo ma durante l'esegesi non ha fatto ridere nessuno e ha spiegato in maniera precisa cosa veramente significa l'inno di Mameli...mi ha chiarito molte cose che ancora non avevo capito e, quando ha cantato l'inno come un soldato che sta per partire per la guerra il giorno dopo beh, mi ha anche commossa. è stato semplicemente fantastico!!!!