venerdì 11 maggio 2012

Il quinto stato. L'esperienza dell'adi nella mobilitazione dei dottorandi


Pubblico qui di seguito il mio intervento tenuto in qualità di rappresentante dell'adi Bari durante la discussione sul libro "La furia dei cervelli" di Allegri-Ciccarelli svoltasi a Bari il 10/5/12.


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Vi ringrazio dell'invito che avete voluto rivolgere all'associazione dei dottorandi e dei dottori di ricerca italiani di partecipare a questo dibattito. L'abbiamo subito colto come un'occasione per discutere della precarietà della nostra condizione non come di una contingenza risolvibile mantenendo inalterato il contesto all'interno del quale si colloca, come un accidente dovuto alla cattiveria o l'inefficienza dell'attuale classe politica, ma come una condizione strutturale di questi tempi e delle nostre società.

La quasi totalità dei miei colleghi, me compreso, erano studenti nel 2008, quando l'Occidente è stato scosso da una crisi economica epocale e in Italia gli studenti tornavano a riempire piazze ed università contro la legge 133 dell'allora governo Berlusconi e dell'allora ministro Gelmini. Si trattava di un provvedimento che tagliava fondi alle Università pubblica avviando un processo di trasformazione delle stesse in fondazioni di diritto privato. Di fatto la mobilitazione che da essa partì rivelava un disagio più profondo, un disagio che quel movimento ha avuto la responsabilità di non saper mettere a tema, sviluppare consapevolmente. Leggendo il libro di Ciccarelli e Allegri ho scoperto il riferimento ad un bellissimo intervento tenuto da Sergio Bologna di fronte agli studenti in mobilitazione a Siena.
Ne cito alcuni stralci:

Ciò che minaccia il vostro futuro non è soltanto il governo della signora Gelmini ma un pensiero economico bipartisan che non ha mai saputo né voluto mettere vincoli o imporre regole a una gestione del sistema finanziario dove nulla ormai assomiglia a un mercato ma tutto assomiglia a un gioco d’azzardo con i soldi dei lavoratori e della middle class che vive del proprio lavoro. […] Sono convinto che la lotta che state conducendo potrebbe essere utile a voi stessi e agli altri se ne approfittaste per crearvi un vostro sistema di pensiero, per procurarvi strumenti critici in grado di capire com’è accaduto quel che è accaduto e quali sono stati i perversi meccanismi che in questi ultimi vent’anni hanno dominato l’economia, senza che venissero contestati né da Destra né da Sinistra – a parte qualche voce isolata di studioso. […] Questa vostra lotta ha un senso se è un passo in avanti, se diventa atto costitutivo di un processo di autoformazione.”

E poi concludeva questo suo intervento dicendo: “Francamente, se la 133 viene ritirata la vostra condizione di fondo non cambia. E’ questa condizione che dovete cambiare”.

La situazione dei lavoratori precari, ed anche dei dottorandi e degli assegnisti di ricerca, che cercano delle ragioni per la loro condizione rischia di essere quella di Sisifo, costretto ogni qual volta crede di esser riuscito a portare il masso sul monte a vederlo ruzzolare nuovamente giù.

Lo scandalo più grande che riguarda la situazione dei dottorandi italiani risiede nel fatto che più delle metà di essi, soprattutto dopo la riforma Gelmini, si trovano a svolgere il dottorato di ricerca (durante il quale spesso devono mantenere aperti laboratori, sostituire i docenti a lezione o agli esami etc.) senza ricevere alcuna borse di studio ed anzi dovendo anche pagare delle tasse. Tale situazione vive in Puglia una felice anomalia: i dottorandi senza borsa ricevono una borsa di studio regionale che, al netto delle tasse, è sostanzialmente equiparata a quella dei colleghi che ricevono la borsa ministeriale. Ciò ha sanato una condizione che nel resto d'Italia ha ben poco di sano, generando grandi aspettative tra i dottorandi pugliesi. La borsa regionale fino a quest'anno che è stata inserita nello stesso bando di concorso e quindi viene erogata contestualmente all'inizio del dottorato, veniva erogata anno per anno tramite il bando Ritorno al futuro a dottorato iniziato. I dottorandi senza borsa si trovavano così a cominciare il dottorato e dopo 1 o 2 anni ricevevano la borsa regionale. Si trattava di una consuetudine, non di una certezza, ma i dottorandi senza borsa accettavano di cominciare il dottorato fiduciosi di questa consuetudine. Quando però la Regione ritardava l'erogazione delle borse ecco che lo smarrimento dei dottorandi cresceva, soprattutto in virtù del fatto che nel frattempo c'erano affitti da pagare, lavori serali da svolgere contemporaneamente al dottorato per assicurarsi una qualche fonte di reddito. Soprattutto ritornava lo spettro di un incubo: la possibilità di svolgere un lavoro gratuitamente per tre anni, dovendo anche pagare le tasse. Una condizione che in molti non avrebbero accettato senza la speranza-fiducia di ricevere la borsa regionale. L'adi in questo contesto ha portato avanti la trattativa con la Regione chiedendo conto dei ritardi e cercando di tenere unito il fronte dei dottorandi. Si sono susseguite affollatissime assemblee in cui tanti colleghi hanno preso la parola, raccontato la loro condizione, ipotizzato strade da percorrere per sollecitare la Regione ad adempiere alle promesse fatte. Quando l'erogazione delle borse è avvenuta c'è stato poi un generale rompete le righe a cui la costanza dell'associazione non è riuscita a far fronte cercando di estendere il discorso a questioni più ampie, cercando di coinvolgere i colleghi in discussioni sull'ipotesi di abolizione del valore legale del titolo di studio, sulla questione generazionale mediterranea lanciata dalla Primavera araba e su altre tematiche di pubblico interesse.

È avvenuto in piccolo quello Sergio Bologna paventava, avendo tragicamente ragione, riguardo l'Onda: si è interpretata un singola questione come la questione capitale risolta la quale torna la normalità. E ciò è avvenuto a livello esponenziale perché a differenze di quanto avvenuto con l'Onda, in questo caso abbiamo vinto.

Si rende quindi obbligatorio, onde ricadere in fenomeni di narcisismo avanguardistico, cercare di capire la condizione del lavoratore precario al di là facili condanne. Ci siamo chiesti perché così tanti nostri colleghi tornavano frettolosamente nei laboratori, nelle biblioteche, negli studi dei professori. Il dramma più grande della precarietà è la condizione di competizione perenne all'interno della quale cala il lavoratore con i propri pari. Nel nostro caso un dottorando sa che se vorrà fare carriera all'interno dell'accademia dovrà accumulare più titoli dei propri colleghi, dovrà dimostrare più affidabilità e dedizione di essi. E dovrà farlo nel ristretto tempo dei tre anni di dottorato. Una volta accettata come normale questa situazione il tempo da dedicare a mobilitazione collettive e pratiche cooperative è tempo sottratto alla competizione, competizione a cui gli altri continuano a dedicarcisi acquisendo un vantaggio. In questo senso la pedagogia dell'imprenditore di se stesso e l'ideologia del merito, per quanto azzoppate dalla crisi resistono ancora ben salde, con un tocco di cinismo in più: se prima l'idea dominante era 'devo dedicarmi alla mia carriera perché così verrò premiato e potrò affermarmi' ora è diventata 'visto il panorama di generale scarsità è bene non perdere nessuna occasione, non sottrarmi mai alla logica della competizione'.

La sfida più grande per chi voglia unire il mondo della precarietà sta tutta in questo duplice fronte: spezzare le catene di questa percezione di se stessi come monadi in competizione tra loro e, una volta accettata l'idea che un patto sociale è saltato definitivamente, pensarne insieme uno nuovo. Nel preparare questo intervento mi sono posto il problema di come figurarmi il crollo definitivo del patto sociale fordista, all'interno del quale è stata pensata l'Università, la pubblica istruzione e la ricerca sulla quale si sono poi abbattute le riforme dell'ultimo ventennio; un'Università, una pubblica istruzione ed una ricerca a cui a volte pensiamo con nostalgia come a un modello a cui tornare. L'ho immaginato come un muro che crolla, e nel crollo vede sbriciolarsi i mattoni che lo costituivano. Il problema delle lotte corporative che non hanno la capacità di farsi lotte politiche, di quelle degli studenti che chiedono solo il ritiro della 133, dei dottorandi che chiedono solo il riconoscimento delle borse di studio, dei precari dell'istruzione che chiedono solo la stabilizzazione, sta nel fatto che ogni categoria pensa a se stessa come ad un mattone caduto giù da un muro che per il resto è rimasto lì, intatto, pronto a riaccoglierlo. Non esiste più quel muro come non esiste più il patto sociale all'interno del quale ricollocarsi e non esiste più il mattone, sbriciolato dalla competizione nella quale i singoli lavoratori sono stati lanciati gli uni contro gli altri.

La ricostruzione di una soggettività capace di mettere in discussione gli squilibri del presente deve passare attraverso questo collo stretto, senza attraversare il quale è impossibile cambiare la nostra condizione.

domenica 6 maggio 2012

Pareggio di bilancio in Costituzione: un errore storico



17 Aprile 2012: una data qualunque nella storia politica italiana a giudicare dai giornali, perfettamente inscrivibile in una fase in cui i tecnici cercano di salvare l'Italia, si discute dell'Imu, i partiti sono travolti dagli scandali e l'asta sulle frequenze televisive è la riprova di una mutato clima politico. Eppure di questa data torneremo a parlarne in futuro perché al Senato è stata approvato l'inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione. Senza un dibattito pubblico, senza che giornali, intellettuali e partiti si esprimessero e discutessero di una misura che cambia profondamente il volto dello Stato italiano. Niente di più distante dall'importanza e dalla sacralità che nella storia d'Italia ricopre l'assemblea costituente e le interminabili discussioni che ne caratterizzarono i lavori. Un dibattito che impegnava appieno dei partiti che erano ampiamente rappresentativi della società italiana e che da essa ricevevano la legittimazione convinta a scrivere le leggi del vivere civile.
Eppure il pareggio di bilancio in Costituzione ne contraddice apertamente lo spirito, registra formalmente un'inversione di tendenza nella cultura politico-economico che l'ha ispirata a partire da quell'articolo 1 che recita “L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Quelli della Costituzione erano gli anni in cui il keynesismo ricostruiva l'equilibrio sociale in un'Europa uscita distrutta dalla seconda guerra mondiale. Anni in cui l'obiettivo dello Stato era garantire la piena occupazione, facendo investimenti finanziati dal debito per garantire una crescita economica reale (non quella fantomatica che dovrebbe scaturire oggi dall'abolizione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori), i cui effetti, in virtù di un protagonismo e di una vigilanza del mondo del lavoro oggi impensabile, contribuivano a creare una classe media, a permetterle di mandare i propri figli a scuola ed all'università, a comprar casa, a far crescere i consumi. Non è un caso che dopo il boom economico venne il '68: quel modello sociale inclusivo aveva prodotto una generazione consapevole di se stessa e volenterosa di imporsi sulla scena pubblica.
Il keynesismo è entrato in crisi negli anni '70, con le crisi petrolifere che mettevano in discussione la crescita infinita dei paesi occidentali, con la sospensione degli accordi di Bretton Woods che sancivano la fine di un equilibrio geopolitico, con le crisi fiscali che cominciano a rendere meno scontato il welfare state. In questo quadro le destre occidentali si riorganizzarono e tentarono di reagire alla marginalità a cui il dopoguerra le aveva condannate e a quel '68 che metteva addirittura in discussione 'da sinistra' l'equilibrio sociale occidentale. La presidenza di Nixon negli Usa fu il laboratorio politico del futuro: se da un lato il presidente del Watergate dischiarava “siamo tutti keynesiani” dall'altro fu proprio lui a sancire la fine di Bretton Woods e a favorire un colpo di stato in Cile che permetterà di sperimentare la dottrina neoliberista al governo. Fu durante quegli anni che la crisi fiscale della città di New York venne affrontata con durissime misure di austerity che produrranno l'esclusione sociale su cui poi il sindaco Giuliani costruirà la sua fortuna elettorale. Fu durante quegli anni che la nacque la Commissione Trilaterale: un potentissimo gruppo di intellettuali e politici di cultura neo-liberista ed imprenditori provenienti da Usa, Europa e Giappone. Emblematico del mutamento di clima politico fu il fatto che dopo il repubblicano che si dichiara keynesiano (e dopo una breve parentesi di Ford) a salire alla Casa Bianca fu Jimmy Carter, un democratico organico alla Trilaterale. Dopo di lui torneranno al governo i repubblicani con Reagan e a quel punto dal laboratorio si passerà a un'egemonia effettiva della dottrina neoliberista. La piena occupazione venne derubricata dall'agenda politica, sostituita dalla lotta all'inflazione e dalla contrazione della spesa sociale.
In Italia queste novità arrivarono in ritardo; in contemporanea con questa imponente evoluzione dello scenario geopolitico da noi prevalse l'immobilismo e l'equilibrio politico che aveva partorito la Costituzione entrò in cancrena: lo Stato governato dalla Dc e dal Psi negli anni '80 continuava a indebitarsi, ma i suoi investimenti non producevano crescita, servivano soltanto a finanziare misure corporative e clientelari per frenare la fuga di voti verso il Pci. Non a caso coincidevano quasi sempre con le vigilie elettorali. La sfiducia nei confronti dello stato e l'austerithy arrivarono in Italia più tardi, ma anche molto più violentemente, in quanto figlie anche della delegittimazione di una classe politica dimostratasi interessata solo a garantire la propria sopravvivenza elettorale. Ed è così che nel giro di 5-6 anni l'Italia conobbe l'auterity, tangentopoli, la fine della prima repubblica e l'ingresso nell'euro. Non bisogna dimenticare che tutto ciò avvenne negli anni in cui il mondo conobbe il fenomeno della globalizzazione.
Il centro-sinistra italiano in questo contesto fece propria la bandiera della lotta al debito pubblico, costruendosi l'immagine della forza politica responsabile e non populista, cavalcando l'idea che liberarsene significava riconquistare sovranità. Inoltre adottare misure di austerithy significava ricollegare l'Italia al grande progetto di un'Europa unita.
A questo decalogo di buone intenzioni è però mancata la rivendicazione di una distinzione tra spesa pubblica clientelare e spesa pubblica volta a garantire crescita ed inclusione sociale. In merito all'utopia europeista la costruzione dell'unione economica e quella dell'unione politica hanno viaggiato con due marce diverse e l'effetto è stato quello dello svuotamento progressivo del potere degli stati nazionali e della crescita di poteri tecnocratici sovranazionali privi di qualunque legittimazione democratica. “Ce lo chiede l'Europa” è diventato il mantra col quale legittimare qualunque taglio, qualunque privatizzazione, qualunque restrizione dello stato sociale.
Il fiscal compact che impegna gli stati europei ad inserire il pareggio di bilancio nelle proprie costituzioni entro marzo 2013 è stato il paradossale epilogo di questo racconto: lo svuotamento di potere degli stati nazione li ha resi vulnerabili agli attacchi speculativi ed obbligati a varare misure che sciogliessero il vincolo solidaristico; per rispondere alla crisi che da ciò è scaturita si vincolano costituzionalmente gli stessi stati al pareggio di bilancio, riducendoli ancor più al rango di amministratori di condominio e rendendoli ancora meno autonomi.
Da domani qualunque imprenditore privato potrà indebitarsi con una banca per finanziare una nuova linea di produzione che potrà permettergli di restituire il debito e garantirgli profitti, mentre lo stato italiano no: dovrà spendere ciò che incassa dal prelievo fiscale, rinunciando in tal modo al compito politico per eccellenza, progettare e costruire la società del domani.
Del 17 Aprile 2012 torneremo a parlare quando di fronte alle proteste per tagli alla sanità, all'istruzione, ai trasporti, alla cultura, quando al malcontento per una disoccupazione che non diminuirà con l'abolizione dell'articolo 18 e in assenza di una politica economica (cioè in assenza di investimenti), i governi risponderanno: 'ma non possiamo fare altrimenti, dobbiamo rispettare il pareggio di bilancio'. E a quel punto a sinistra molti si chiederanno 'Pareggio di bilancio? Cos'è 'sta cosa? A quando risale?' e solo allora scopriranno che è stata votata nel silenzio generale, col voto favorevole del Partito Democratico, mentre la maggior parte degli italiani si indignava per gli scandali della casta e guardava al governo tecnico come a una salvezza.

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