mercoledì 26 maggio 2010

Pop filosofia e Pornosofia: Simone Regazzoni a Bari

Intervista al filosofo recentemente cacciato dalla Cattolica

da barilive.it 26/05/10 - http://www.barilive.it/news/news.aspx?idnews=17424

Simone Regazzoni è un giovane e promettente filosofo italiano. È stato allievo di Jacques Deridda, il filosofo francese che con il “decostruzionismo” ha messo in questione i “margini della filosofia” e della metafisica occidentale, riconsiderando temi da queste tenute al bando. È forse partendo da questo approccio che Regazzoni da qualche anno rivolge la sua attenzione a fenomeni di cultura di massa, quelli a cui da sempre il mondo accademico si accosta con snobismo. Ha trattato temi quali Harry Potter e la fortunata serie televisiva Lost, formando anche un gruppo di lavoro sui temi della serie televisiva (gruppo a cui ha preso parte anche la barese Francesca Romana Recchia Luciani). Questi giorni è a Bari per presentare i suoi ultimi due lavori: Pornosofia e l’opera collettanea Pop filosofia (ne discuterà stasera alle 18.00 presso la libreria Laterza). Il primo, un libro in cui analizza il fenomeno del mondo del porno, gli è valso la cacciata dall’Università Cattolica di Milano ; il secondo è un manifesto di riforma totale dello statuto della riflessione filosofica. Gli abbiamo chiesto di dirci qualcosa di più.

Un aspetto da cui è forse il caso di partire è quella che possiamo chiamare la legittimità di chiamare riflessione filosofica una riflessione sul mondo del pop, delle fiction televisive, del mondo del porno. Che cosa è successo nella storia del pensiero che oggi permette di chiamare “riflessione filosofica” una riflessione che ha ad oggetto Cicciolina, Lost accanto alla sostanza ed all’essere?
Ai miei occhi nulla di così rivoluzionario, benché è chiaro che delle novità ci siano. Perché dico nulla di rivoluzionario? Perché da un lato la filosofia oltre a occuparsi di essere, sostanza, senso, ecc. si è occupata di opere di fiction (ed è stata essa stessa opera di fiction: basti pensare ai dialoghi platonici), dall'altro perché vi sono stati filosofi che hanno usato la fiction come spazio per riflettere sulle grandi questioni filosofiche. Penso ad esempio al lavoro di lettura degli esprimibili ellittici degli stoici fatto da Deleuze attraverso "Alice nel paese delle meraviglie". Nessuna rivoluzione, dunque. La novità sta nel fatto che l'opposizione cultura alta/cultura bassa si è autodecostruita nel corso del Novecento aprendo la strada almeno alla possibilità (perché davvero siamo ancora agli inizi) di confrontarsi con la cultura di massa.

Nel secolo scorso Adorno condannavano la cultura di massa e l’arte ridotta ad oggetto di consumo. Oggi appare imprescindibile per chi voglia comprendere il mondo contemporaneo accostarsi ad essa senza pregiudizi. Il suo approccio fa però di più e sembra quasi entusiastico. Perché?
Forse entusiastico è eccessivo, non so. Ma non escludo che un certo entusiasmo filtri dalle pagine che scrivo. Perché? La risposta più seria è naturalmente: non lo so. C'è qualcuno in me che prova godimento a giocare filosoficamente con alcuni oggetti della cultura di massa, ma le ragioni di questo godimento il mio io non le conosce e non le vuole nemmeno conoscere. Io scrivo a partire da questo godimento. Al di là di questo c’è però un aspetto preciso di ciò che definisco “pop filosofia” che può indurre lei a parlare di entusiasmo: la pop filosofia non si accosta senza pregiudizi alla cultura di massa per analizzarla; la pop filosofia si contamina con la cultura di massa per dar vita a oggetti filosofici ibridi che sono essi stessi opere filosofiche pop. È un punto per me strategicamente essenziale. Si tratta di creare nuovi oggetti filosofici che esplorando generi di scrittura diversi abbiano la forza di circolare nello spazio pubblico.

Nell’Italia degli ultimi decenni stiamo assistendo alla crisi di credibilità del sistema universitario e contemporaneamente al boom di festival e rassegne (di letteratura, economia filosofia etc.) che portano intellettuali a riempire piazze ed auditorium. Se da un lato questo fenomeno appare come una democratizzazione del sapere, dall’altro rischia di portare all’abbandono di quella concezione dello studio come “mestiere, e molto faticoso” come lo definiva Gramsci. Lei come giudica questa situazione?
Molto semplicemente dicendo che le due cose non si escludono. E che di norma ad andare a parlare nelle piazze sono colore che hanno faticato sui libri e hanno avuto un pubblico riconoscimento del proprio lavoro intellettuale. Lo studio faticoso non basta; occorre, per citare Gramsci, “socializzare delle verità”. Tuttavia, affinché il tutto funzioni, occorre che lo Stato continui a finanziare l’Università e la ricerca. Il pericolo non sono le piazze o i festival sono le politiche che tagliano i fondi all’Università e, al contempo, un’Università incapace di rinnovarsi.

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