mercoledì 20 aprile 2011

PRECARIO SARÀ LEI! - Elogiarne uno per isolarne cento

Primo appuntamento della mia nuova rubrica settimanale, on line su Linkredulo ogni mercoledì sui temi legati alla precarietà.

Per descrivere brevemente le conseguenze dell'introduzione di misure di flessibilità nel diritto del lavoro bastano due elementi: riduzione delle tutele e dei diritti e progressivo isolamento del singolo lavoratore dagli altri, il tutto favorito dalla diminuzione dell'offerta di lavoro dovuta ai fenomeni della globalizzazione ed a una ristrutturazione dei processi produttivi favorita dall'innovazione tecnologica. Sono due fenomeni speculari: più un lavoratore è privo di diritti e tutele più è solo; più è solo, più i suoi residui diritti e tutele sono fragili e sotto attacco. È il classico fenomeno in cui, per dirla volgarmente, il cane si morde la coda. Restituire dignità al lavoro significa quindi prima di tutto spezzare questa catena.
In questo scenario un ruolo importante è recitato dal modo col quale vengono raccontate le rare storie di successo di giovani cresciuti e formatisi nell'ultimo decennio che sono riusciti ad inserirsi nel mondo del lavoro. L'ostensione di queste storie infatti, al pari delle storie di integrazione di singoli immigrati, può avere infatti un tono ed una finalità smaccatamente propagandistica. Il sottotesto è: non è vero che flessibilità è sinonimo di impoverimento e degrado, è possibile farcela con impegno e senza lamentarsi, anzi, chi lo fa è affetto dalla sindrome della volpe davanti all’uva, metafora di un successo che è incapace di raggiungere.


Lungi dallo spezzare la catena di cui sopra, un racconto interessato di quelle storie ha spesso la finalità di accrescere la solitudine del lavoratore precario non con strumenti legislativi ma con l’egemonia culturale dell’individualismo, propugnante l’idea per la quale l’unica emancipazione possibile sia quella individuale, disinteressata se non addirittura dichiaratamente contraria a quella collettiva. Il mito del self-made man, tanto in voga dagli anni ’80 in poi, è servito ad affascinare le giovani generazioni di allora e sulla forze del loro tacito assenso distruggere le tutele ed i diritti conquistate dal mondo del lavoro; oggi questa rappresentazione posticcia di quel mito serve a legittimare lo status quo tagliando le gambe a qualunque forma di solidarietà tra precari, l’unica che davvero potrebbe cambiare le cose.
Rappresentare il successo individuale come possibile all’epoca della precarietà significa delegittimare chi critica il modello di società fondato sulla guerra tra poveri (precari in questo caso). Non cascarci è oggi un dovere di dignità per chi ha visto la vita di fratelli maggiori, amici e (ormai è giunto il tempo purtroppo) genitori devastata dal mostro della precarietà.

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