La questione della chiusura dello stabilimento dell'Ilva di Taranto è emblematica dei tempi in cui viviamo al pari del dibattito che a partire da essa è scaturito.
La nascita di quello stabilimento fu profondamente figlia del proprio tempo: di un'Italia che schierata tra le fila del capitalismo durante la guerra fredda non riusciva a sviluppare un tessuto produttivo omogeneo e solido su tutto il territorio nazionale e, attraverso l'intervento statale per mano della Cassa del Mezzogiorno, cercava di industrializzare le aree periferiche del paese. Nacquero così, tra gli altri, gli stabilimenti Italsider di Bagnoli e Taranto. Allora l'impatto ambientale non era considerato come un pericolo da tenere in considerazione e questi nuovi stabilimenti erano salutati positivamente (o non osteggiati) da tutto l'arco costituzionale: dai partiti di governo che speravano in questa maniera di far crescere il capitalismo italiano e dalle sinistre che vedevano nella fabbrica lo strumento per attuare quella metamorfosi del sottoproletariato meridionale in classe operaia consapevole di se stessa. Nacque così a Taranto il più grande stabilimento siderurgico d'Europa.
Con il passare dei decenni l'impatto ambientale di quella presenza diventò sempre più evidente, ma non portò a un'inversione di rotta. Purtroppo di mezzo ci passarono gli sciagurati anni '80, quando l'intervento pubblico smise per mano socialista di creare occupazione, potere d'acquisto e crescita economica ma si concentrò sulla coltivazioni di piccoli e grandi clientelismi capaci di garantire un ritorno elettorale sul breve termine. Contemporaneamente la classe operaia perdeva terreno: in primo luogo per via di una metamorfosi interna dovuta alle pratiche di esternalizzazione (che trasformavano gli ex-lavoratori dipendenti in piccoli imprenditori in concorrenza tra loro) e alla riduzione del numero degli occupati in virtù di un'innovazione tecnologica frenetica; in secondo luogo per ciò che avveniva al suo esterno: innanzitutto il crollo del blocco sovietico e la crescita di un enorme esercito industriale di riserva (che, come scrive Luciano Gallino, ha portato a quadruplicare in 20 anni la forza lavoro disponibile) e poi per il progressivo potere acquisito dalla finanza nella governance aziendale (che può essere rozzamente riassunto nel 'più forza agli azionisti, meno agli operai').
In questo contesto si inserisce il progressivo ritirarsi dello stato dall'economia: negli anni '90 lo stabilimento Italsider di Taranto passò in mano privata (ritornando Ilva). Erano anni in cui l'Italia doveva rientrare nell'euro e dimostrare di avere i conti in ordine fu il nostro lasciapassare: svendere patrimonio pubblico fu utile a tal fine. D'altronde se la vulgata egemone vuole che spesa pubblica è sempre sinonimo di clientelismo, se la classe operaia capace di imporre con la propria forza un intervento dello stato a proprio favore non c'è più, se le aziende private (in virtù del loro intreccio con la grande finanza) hanno una capacità di muoversi più agevolmente nella concorrenza, perché continuare a tenere in mano pubblica uno stabilimento mastodontico come quello di Taranto?
I Riva hanno acquistato lo stabilimento in questo contesto ed in questo stesso contesto hanno potuto amministrarlo impunemente negli ultimi 17 anni, negando il danno ambientale che stavano compiendo certi di farla franca in virtù del ricatto occupazione e approfittando delle maglie larghe lasciate dallo stato alle imprese.
Questa metamorfosi così imponente ha fatto sì che dal dibattito pubblico italiano nell'ultimo ventennio sia sparita completamente una discussione in merito alla politica industriale (riassumibile nel fatto che la triade di questioni 'cosa' 'quanto' e 'come' produrre sia di pubblico interesse e non possa essere lasciata solo nelle mani del mercato). Ciò ha fatto parte dell'effetto domino della crisi degli stati-nazionali europei ed ha ingenerato, in virtù della frustrazione della popolazione locale decimata dai mali prodotti dall'Ilva, l'idea che non valesse neanche la pena mettere in questione le modalità della produzione d'acciaio e che l'alternativa secca fosse quella tra la modalità presente (produttrice di diossina e tumori) e lo smantellamento della produzione. Nei confronti di questa semplificazione occorre oggi avere rispetto: in quale autorità avrebbero dovuto i cittadini di Taranto e dintorni riporre la loro fiducia affinché si imponesse alla proprietà di convertire ecologicamente la produzione? In uno stato e in una politica la cui forza contrattuale nei confronti della grande impresa tutta è stata ridotta quasi a zero?
Negli ultimi anni abbiamo spesso sentito rivendicare da parte delle oligarchie politiche il cosiddetto “primato della politica” quando hanno avuto bisogno di difendersi dalle indagini della magistratura o hanno dovuto resistere alle istanze poste dai movimenti. Mai si è tentato neanche timidamente di rivendicarlo quando si trattava di stabilire a chi spettasse l'ultima parola sulla vita e sulla morte, sul lavoro, il benessere e la povertà legati al funzionamento dei cicli produttivi. Farlo non avrebbe certamente cambiato lo stato delle cose ma sarebbe servito quantomeno a tenere vivo e presente un elemento problematico e drammatico di questi tempi.
Questa omissione continua oggi nella discussione innescata dalla decisione della magistratura: “bisogna conciliare ambiente e lavoro” dicono. In questa spiegazione e soluzione manca però un terzo attore, fondamentale, senza il quale non si riesce a capire come si è arrivati fin qui e non sarà possibile conciliare un bel niente: si tratta del capitale, quello a cui l'opinione pubblica ha smesso di fare domande e la politica ha smesso di imporre decisioni, lasciandolo unico attore sul palco della contemporaneità. Quando poi questo produce disastri li si può sempre camuffare per accidenti o (come nel caso di Taranto) liquidare, contrapponendo al formalismo degli azzeccagarbugli il realismo, il potere e il ricatto di chi produce ricchezza per sé distribuendo le briciole agli altri.
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da Il Corsaro (3/8/12)