giovedì 11 dicembre 2008

Elezioni universitarie


Quest'anno, ormai al mio VI anno in Università, avviandomi verso la conclusione, ho deciso di candidarmi a rappresentante degli studenti in Consiglio di Interclasse ed in Consiglio di Facoltà. Nell'attesa del responso elettorale, che arriverà presto, pubblico la lettera di presentazione della candidatura.

da corridoiofilosofia.blogspot.com

Quando ci troviamo davanti ad un problema pratico noi filosofi molto spesso ci sentiamo impossibilitati ad affrontarlo e risolverlo perché la nostra priorità resta un problema teorico, senza la risoluzione del quale è impossibile andare avanti.

Alla nobiltà di tale umile atteggiamento però, fa da contraltare il rischio che tanto spesso corriamo di pulirci la coscienza davanti alle cose che non vanno e che ci richiamano alle nostre responsabilità; il problema teorico assume in questa caso una perennità tale da permetterci di dire “ho le mie buone ragioni per non agire…”.

Non sono stato e non sono immune da questo tipo di atteggiamento. Quando mi sono iscritto al nostro corso di studi, ormai 5 anni fa, tutto pensavo fuorché di fare politica in Università. Passati gli anni però, mi sono reso conto di quante opportunità noi studenti stessimo perdendo, e di come gli unici responsabili di questa perdita fossimo noi stessi.

Il lasso di vita ed il percorso di studi che stiamo attraversando è purtroppo spesso vissuto solo ed esclusivamente come un momento di passaggio tra l’incoscienza dell’adolescenza e la serietà del tempo in cui lavoreremo ed avremo una famiglia (forse), non facendo caso alle enormi potenzialità e specificità che contraddistinguono questi anni. Non siamo ex-adolescenti o pre-adulti, ma giovani, studenti universitari: stiamo laddove la serietà dello studio deve necessariamente accompagnarsi con la forza, la lungimiranza, l’inquietudine, la gioia e la non-compromissione dei nostri anni. Stiamo laddove dovremmo aver perso l’ingenuità, ma dovremmo essere ancora ben lontani dall’età in cui possiamo dire di conoscere la vita in ogni sua sfaccettatura!

Tante cose contribuiscono a farci perdere la fiducia in noi stessi, ed è facile in un contesto desolante pensare di concentrare tutte le proprie restanti energie su se stessi. L’Università però resta un’enorme occasione di crescita collettiva oltre che individuale: è in questi corridoi che nei decenni passati sono nate e si sono sviluppate tendenze e proposte culturali e politiche rivolte a tutta la società. È per questo che fare politica in Università non può e non deve significare soltanto distribuire statini, orari prenotare esami.

In ogni campagna elettorale, di qualunque tipo, solitamente trionfa la retorica e la politica si propone come risolutrice dei problemi di un elettorato al quale viene promesso che dormirà sogni tranquilli mentre qualcun altro veglierà per lui. Purtroppo anche nelle mura delle Università, un tempo tempio quasi sacro di idealità e nobili intenti, questa vulgata qualunquista e impolitica ha guadagnato terreno tra le associazioni e le realtà studentesche e riesce a fare incetta di voti.

Durante la contestazione alla legge 133/08 abbiamo fatto tutt’altro che risolvere problemi: li abbiamo creati e sollevati chiedendo a tutti voi di alzarvi e reagire contro una legge ingiusta. Quando abbiamo cominciato a farlo eravamo una minoranza, ma il coraggio di prendere una posizione decisa e di proporvela non ci è mancato. Così continueremo ad agire da rappresentanti.

Per ribadire ancora una volta che questo è il nostro posto, è il nostro momento. Per ribadire che quest’Università è anche nostra.


Alfredo Ferrara
Candidato al Consiglio di Facoltà di Lettere e Filosofia
ed al Consiglio di Interclasse di Filosofia

domenica 23 novembre 2008

Nell' Onda oltre la cresta dell'onda

E' stato un mese importante l'ultimo. Dopo la grande delusione derivata dal fallimento del governo Prodi e le elezioni che ci hanno sbattuto in faccia come Berlusconi non sia più un incidente di percorso della nostra storia, ci è servita la scure del ministro Gelmini per ricostruire una partecipazione civile.
Molte cose si sono dette sull'Onda: paragoni, elogi, grandi aspettative. Per chi sta vivendo questa mobilitazione dall'interno però le cose significative sono altre. Personalmente uno degli aspetti che più mi ha motivato ed incoraggiato sono state le svariate storie ed esperienze che ho incontrato e conosciuto: colleghi studenti (tantissimi) e docenti di ogni grado (pochi). Ognuno mi ha insegnato qualcosa. In un'assemblea chiassosa è stato utile ad esempio ascoltare dalla bocca di un rappresentante dei Cobas un richiamo ad una riflessione politica seria sul momento che stavamo e che stiamo vivendo, scevra dall'urgenza organizzativa che ha eccitato il movimento in tanti momenti del suo percorso.
E' vero, nell'agire politico c'è bisogno di fermarsi e di riflettere sempre, anche quando il percorso che si sta compiendo sembra viaggiare su due binari lunghissimi e con una forte spinta motrice.
Non dobbiamo dimenticarci dove eravamo non più tardi di tre mesi fa: cittadini di un paese in cui non ci riconoscevamo, analfabeti di parole capaci di rimetterci in moto, disillusi circa la possibilità di creare un lessico che andasse un po' oltre il ristretto ambito del privato, dell'individuale. E laddove questo lessico c'era era tutto declinato al negativo: un anatema rivolto contro tutto e tutti che celava una lamentela auto-assolutiva.
Non dimentichiamoci quello che la nostra generazione faceva in questo contesto: era in larga parte a casa propria. Più volte nei mesi passati ho pensato che quando il vittimismo si impossessa delle energie fresche, quelle che nessun discorso qualunquista e cinico dovrebbe riuscire a zittire, l'orizzonte di quella generazione è davvero grigio. Siamo cresciuti arrabbiati e delusi nei confronti di una generazione nata incendiaria e morta pompiera senza tuttavia renderci conto che il nostro iper-criticismo privo di azione conseguente significava essere pompieri pronti a spegnere qualunque fuoco. Anche quello che ancora deve arrivare.
Poi c'è stata l'Onda anomala con i milioni di universitari in piazza, in assemblee, presenti ad ogni nuova convocazione. Nella nostra Bari in una settimana abbiamo indetto due manifestazione alle quasi hanno risposto quasi 10.000 persone in entrambe le occasioni, nonostante organizzate in pochissimo tempo e convocate con prospettive molto meno ampie. Forse neanche dopo la mattanza del G8 di Genova si è avuta così tanta partecipazione in tutta Italia.
E' stata davvero una sbornia collettiva. Qualcuno dei promotori ha pensato arrogantemente "finalmente hanno capito quello che noi diciamo da anni"; qualcuno della stampa ha detto che era un nuovo '68; qualcun'altro che il movimento ha riaperto una questione generazione.
Oggi il movimento è in calo, soprattutto di partecipazione ed in molti casi anche di entusiasmo. E' un effetto inevitabile: se le cifre continuavano ad essere quelle sarebbe davvero avvenuta una rivoluzione. D'altronde il prestar fiducia alle sirene dei media ed alla loro retorica rende facile la disillusione collettiva. Sparire dai media per molti può significare che tutto è finito, che abbiamo perso e che forse la prossima volta conviene pensarci due volte prima di cominciare.
La vera battaglia comincia oggi: oggi che occorre andare oltre il semplice atto di testimonianza, quello che non costa nulla fare, al massimo solo mezza giornata di studio o di cazzeggio. Comincia ora che è necessario far intrecciare e dialogare nella quotidianità le lezioni, lo studio e l'impegno. La nostra generazione non può essere cambiata così repentinamente in un mese: o avevamo sbagliato prima a leggerla timida, impaurita e quindi individualista, o sbagliavamo due settimane fa, davanti alle piazze stracolme ad inneggiare al risveglio delle coscienze, alla generazione che si alza e si mette in cammino. Io ritengo che l'analisi di due mesi fa era giusta e che tuttavia oggi abbiamo una opportunità che prima non avevamo.
In un dibattito sul '68 tenutosi in occasione del festival della filosofia di Roma Paolo Flores d'Arcais ha sostenuto che una delle principali responsabilità del movimento del '68 è stata l'incapacità di incanalare le proprie istanze nelle istituzioni, di averle lasciate nella fluidità del movimento (fidandosi della sua forza anche numerica). Oggi dobbiamo essere capaci di fare proprio questo. Di trasformare le nostre ragioni in proposte, di trasformare noi stessi da carne da macello incazzata a soggetti politici.
In questo mese ci siamo mossi sull'onda dell'indignazione, sulla parte più emotiva. Ora è dovere di chi in quello che diceva in assemblea e gridava in piazza crede davvero e vuole dargli una continuità, continuare a lavorare e ad elaborare. I tentativi di elaborazione e di discussioni privi di un interlocutore polemico o di una controparte esterna sono una gran responsabilità, per questo la maggior parte dei movimenti si inceppano proprio qui: i rischi di frammentazione e spaccature sono dietro l'angolo, qualcuno inevitabilmente resterà scontento. Non c'è però scelta se non vogliamo essere ricordato come il movimento più breve della storia d'Italia.
Dal tema dell'Università e della ricerca la nostra riflessione può espandersi a tutti i temi che ci riguardano, riscoprendo anche il modo nel quale ci riguardano e ci toccano. Nei primi giorni di mobilitazione è stato bello vedere come si affermava sempre di più l'idea che le motivazioni per le quali facevamo volantinaggio, fermavamo la gente per intervistarla, affiggevamo manifesti, non erano goliardate o motivi per perdere tempo ma tematiche che ci toccavano da vicino. Perché ora non dovremmo provare a fare lo stesso parlando anche della crisi e del lavoro (il nostro di domani e quello degli altri nell'oggi)? Perché non estendere il discorso alla grande emergenza democratica che vive in nostro paese? Abbiamo davvero la possibilità di risollevare una questione generazionale (impegno che richiede qualcosa di un più di un mese) ricreando un lessico e delle esperienze comuni. Alcune forse ci sono già, ma non parlandoci e non confrontandoci non ne siamo consapevoli.
Un motivo per non farlo ci sarebbe: senza il referente polemico e senza l'urgenza di un decreto legge in via di approvazione è praticamente impossibile pensare di portare in piazza nello stesso tempo le stesse persone con la stessa consapevolezza. La politica però non è fatta di vette continue, in larga parte è fatta da una semina che non si sa se porterà al raccolto ed a che raccolto porterà. Se non si continua a seminare però, non lo si scoprirà mai.

mercoledì 13 agosto 2008

Gli intellettuali e la politica


Da sempre è uno dei rapporti più indagati, invocati o maledetti. E' abbastanza scontato a questo proposito citare Gramsci e la sua teoria dell'egemonia culturale. La sua vicenda personale nel complesso poi (personaggio politico di spicco e grande intellettuale) è un raro esempio di come le due tendenze possano unirsi. Molto più interessante può essere vedere come un grande anarchico quale Fabrizio De Andrè, in un'intervista apparsa su A rivista anarchica abbia dichiarato pressappoco che il governo di tecnici sia l'unico governo che vedeva possibile. Innumerevoli analisi si potrebbero proporre su queste due esperienze.
Con la presenza forte delle ideologie, determinanti non solo in ambito politico, ma soprattutto in quello intellettuale, il rapporto tra gli intellettuali e la politica era decisamente più facile di quanto invece lo sia adesso. Con la contestazione degli anni '68-'77, ed in particolar modo quella dell'ultimo anno citato, quando i giovani contestarono ferocemente l'istituzione della sinistra dell'epoca (il PCI), l'intellettuale è diventato un cane sciolto con annesse virtù e vizi del caso. Siamo tutti pronti a celebrare l'autonomia della ricerca intellettuale in assenza di gabbie ideologiche, ma dobbiamo essere altrettanto onesti nel riconoscere l'arroganza che la figura dell'intellettuale può assumere o ha assunto in questo contesto. Se in presenza dell'ideologia, il politico e l'intellettuale non avevano nulla di nuovo da imparare dall'esperienza (l'ideologia non si lasciava sfuggire niente, e tutto quello che accadeva non poteva che esserne solo una conferma), in sua assenza il politico si trova a dover fare i conti, privo di una visione globale della società, con le mareggiate delle dinamiche globali e con l'obbligo di dover prendere delle decisioni e delle responsabilità (senza mai trascurare l'impatto che queste hanno sull'opinione pubblica, ancor più nei sistemi bipolari), mentre l'intellettuale può riflettere serenamente sulle cose, dare risposte che non siano urgenti e che non hanno l'urgenza di accaparrarsi consensi. Può anche criticare il politico che non ha dato la risposta giusta.
Una situazione di sicuro privilegio, inevitabile per altro. Aggiungerei però, una condizione che è patrimonio che gli intellettuali stessi non devono e non possono sperperare dimenticandosi di essere dei privilegiati rispetto ai politici. L'errore più grande consiste proprio nel ritenere che la politica debba limitarsi ad adeguarsi alle analisi che l'accademia (in senso davvero lato) produce. Consiste nel ritenere che la politica (con la sua dialettica, con la sua ricerca dei consensi, con il suo dover fare i conti con noiose e stancanti contingenze) agli intellettuali (a chi sa le cose...) non abbia nulla da insegnare.
Alle primarie del Pd è stato candidato ed eletto Piergiorgio Odifreddi, che nelle sue ultime pubblicazioni ed esternazioni pubbliche, non ha mai fatto mancare la sua sui cosìdetti temi etici attaccando duramente le posizioni della Chiesa e le sue ingerenze sulla politica italiana. Sono passati pochi mesi ed Odifreddi è uscito dal Pd, attaccando duramente Veltroni reo di non operare scelte. Mi chiedo: come poteva sperare Odifreddi in pochi mesi di attività politica di imprimere una linea culturale ad un partito che conta circa 12 milioni di elettori?
In nessun'altro luogo come nella politica è necessario pensare che ci si sta mettendo in gioco, che nulla è scontato o inutile. E questa è cosa ben diversa dall'accettare aprioristicamente un compromesso al ribasso. Significa avere la consapevolezza della complessità con la quale si ha a che fare, complessità di cui spesso chi si accinge a fare/trattare di politica deve sapere che potrebbe esserne vittima.

martedì 15 luglio 2008

1010, 1100, 2000 editoriali di Furio Colombo

Tutti coloro che si sono seriamente interessati alla manifestazione di Piazza Navona non hanno potuto ignorare l'intervento di un signore brizzolato sessantasettenne che prendeva le distanze dal lessico scurrile usato prima di lui e dagli attacchi al presidente della Repubblica. Si tratta di Furio Colombo, deputato Pd, già direttore ri-fondatore de l'Unità. Con le sue parole ci ha ricordato che la politica è una cosa seria e che la partecipazione civile, anche quando avviene libera dai filtri dei partiti e della loro burocrazia, non può e non deve essere qualcosa di esclusivamente emotivo e viscerale.
Avevo all'incirca 16 anni quando rinasceva l'Unità e da qualche anno mi interessavo alla politica essendo iscritto alla Sinistra giovanile (i giovani dei Ds). Guardai a quell'evento con estrema curiosità, visto che si riapriva un giornale vicino al mio partito: il manifesto era tutt'altro che tenero con il centro-sinistra appena reduce dai 5 anni di governo e la repubblica era qualcosa di diverso, che allora, da adolescente di sinistra, vedevo da lontano. Non conoscevo Furio Colombo e non fu subito sintonia con lui, appunto perché nei suoi editoriali difficilmente ci trovi qualcosa che ti aspetti, che esalta esclusivamente la tua indignazione civile senza spiazzarti e indurti a riflettere.
Sono passati gli anni ed ho imparato ad apprezzare sempre più quel signore brizzolato, sia per la sua attività politica, sia per le posizioni intellettuali, sia per lo stile personale che testimonia (uno stile che oserei definire prodiano o donadoniano). Col passare degli anni infatti non ha mai fatto mancare la sua adesione e partecipazione all'Ulivo prima, all'Unione poi ed al Pd infine, senza mai rivendicare protagonismi o poltrone in nome di orientamenti, posizioni etc. Ha sempre avuto come suo unico referente politico la sua visione del paese e della sinistra, visione davvero ampia, sempre al passo con nuove sfide e prospettive.
E' davvero difficile ricordare strappi o rotture da lui perpetrati eppure è da molti considerato una voce critica del Pd ed un anti-berlusconiano di ferro. In un periodo di transizione culturale della sinistra italiana è riuscito attraverso l'Unità e la sua attività parlamentare a ritagliare organicità politica e culturale alla lotta contro il berlusconismo, collocandola tra le urgenze della sinistra, da lui mai trascurate (i morti sul lavoro, la questione ambientale, la laicità dello stato, l'antifascismo). Simbolo di questa capacità sono la collaborazione con Marco Travaglio (liberale e allievo di Indro Montanelli) e la notizia della prematura morte di Tom Benettollo (storico presidente dell'Arci), ignorata da tutti i quotidiani italiani tranne che dalla sua l'Unità. Probabilmente l'aver lavorato proprio presso il quotidiano fondato da Antonio Gramsci l'hai aiutato in questo. Sicuramente se avesse tentato di far ciò attraverso correnti interne, provocazioni ed ultimatum ne avrebbe giovato il suo ego, forse il suo portafoglio, ma sicuramente non sarebbe mai riuscito a costruire tutto ciò.
Gli anni di soggiorno e di lavoro negli Stati Uniti d'America gli hanno permesso di elaborare un'idea nuova di sinistra che sposa le istanze del socialismo del vecchio continente alle più grandi esperienze di democrazia e partecipazione degli States. Il suo ultimo editoriale si apre proprio con un elogio del veterano Ted Kennedy (77 anni), rientrato da un intervento per tumore al cervello in Senato per votare contro la privatizzazione delle cure mediche per anziani. Dal suo arrivo a l'Unità è sempre stato un promotore dell'avvicinamento tra la sinistra ed i radicali riconoscendo la ricchezza delle battaglie combattute da questi in campo nazionale ed internazionale, nonostante si siano sempre collocati al di fuori della sinistra classica.
Riguardo il suo modo di operare ho già detto del suo battersi dentro il recinto, tenacemente ma con discrezione, senza indebolire la sua parte politica. Ci è riuscito proprio perché è rifuggito da rendite di posizione, rivendicazioni personali e correntismi. Ha portato silenziosamente il suo contributo dimostrando che "in maniera silenziosa" non è sinonimo di "in maniera servile". Oserei dire che rappresenta una delle grandi eccezioni all'interno della sinistra italiana: non divide mai, ma allo stesso tempo non arretra mai. Domenica 13 Luglio 2008 ha pubblicato il suo millesimo editoriale, ancora una volta analizzando la situazione italiana in maniera assolutamente disincantata. Grazie Furio.

giovedì 10 luglio 2008

Per un osservatorio sui Tg Mediaset

Personalmente non condivido alcuni toni utilizzati nella manifestazione a Piazza Navona: trovo assolutamente fuori luogo l'attacco di Grillo a Napolitano e poco furbo l'intervento di Sabina Guzzanti. Quando si vogliono fare accuse gravi e forti le si fà col contagocce: prendi un obiettivo e cerchi di centrarlo, dando la possibilità all'uditorio ed a chi vuole partecipare al dibattito nei giorni seguenti di concentrarsi su quello; chi è d'accordo e chi è contrario può così portare la sua motivazione e la sua testimonianza. Quando spari a zero su tutto e tutti, il tuo appare più uno sfogo fine a se stesso. Se voleva essere informazione l'intervento della Guzzanti non ci è riuscito, perché, come possiamo pretendere che chi le cose non le sa, non se ne interessa, provi improvvisamente curiosità davanti ad una valanga di informazioni? In più, e questo è un ulteriore ostacolo sulla strada che l'informazione deve percorrere, è stata data la possibilità a chiunque di attaccare la manifestazione facendo apparire quella rabbia e quella indignazione come un problema personale di approccio alla vita ed alla politica di Guzzanti, Di Pietro e Travaglio. In sostanza: se attacchi uno vado a controllare se il problema è lui. Se attacchi tutti, mi annoio ed attribuisco a te il problema.
Ad esempio la Guzzanti ha fatto importanti accuse alla chiesa in merito alla responsabilità morale che questa dovrebbe prendersi nei confronti dei pestaggi di omosessuali. E' stata la prima a porre la questione in questi termini. E' naturale però che un'accusa così circostanziata e precisa passi in secondo piano rispetto alle battute sul papa all'inferno o sulla Carfagna e Berlusconi. Purtroppo...

Questa però è un'altra questione. Vorrei invece porre l'attenzione su come Emilio Fede ha parlato della manifestazione. Ecco il video.



Non sono legati all'attualità questi altri due video ma vorrei proporveli lo stesso:





E' inutile comunicarci la rabbia e l'indignazione che viene a qualunque persona di buon gusto vedendo questi video ed assistendo al senso di impunità con il quale Fede lancia accuse totalmente gratutite basandosi su dati falsi. Trovo inuitile anche gridare che questo non è un giornalista ma un servo.
Vorrei invece lanciare una proposta: perché non mettere su un osservatorio sui tg Mediaset? Da quando al Tg5 è arrivato Mimun, anche quel Tg è diventato sempre più scandaloso. Trovando un gruppo di persone abbastanza folto, disponibili a vedersi i Tg mediaset ed ad evidenziarne le faziosità o i deliri (come nel caso di Fede), sarebbe possibile realizzare ogni settimana un libro nero con tutte le bestialità dette.
Se c'è anche qualcuno capace di operare bene con i video e sa da dove si possono scaricare le puntate dei Tg, si potrebbe realizzare ogni settimana un video di una decina di minuti in cui raccogliamo tutti questi spezzoni e li sbugiardiamo con i sottotitoli o prendendo immagini e dati da fonti più attendibili. Trovo davvero fatto bene nel montaggio del primo video (quello sul No Cav) il momento in cui viene sbugiardato Fede attraverso un fermo immagine ed un sottotitolo quando dice che l'intero parlamento ha applaudito alle parole di Schifani Può essere questo un modo per cominciare a lavorare.

lunedì 30 giugno 2008

La storia siamo noi



L'ultimo post che ho pubblicato ha suscitato pochi commenti, ma vale la pena porne in evidenza due perché toccano dei temi che vanno oltre quelli trattati da me. La risposta di Ermelinda non poteva essere più completa ed efficace.

Primo commento:
uno che era incazzato ha detto...
Il problema non è berlusconi, ma la sinistra italiana che è incapace di essere sinistra. diciamo che è una vergogna questa sinista un po' comunista e un po' di più cattolica. Non si sa cosa sia, forse un altro residuo del clientelismo italiano (vedi rutelli, bassolino o le amministrazioni nelle regioni rosse). Se le cose stanno così, bah allora essere pro berlusconi o pro sinistra per me non fa molta differenza.
21 giugno 2008 14.08

Secondo commento:
Anonimo ha detto...
Più di cinquanta anni fa Brecht, in un prologo ad un suo dramma scriveva: « Vi preghiamo quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. Di nulla sia detto: è naturale in questi tempi di ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile». Accidenti Bertolt Brecht, sicuramente avresti fatto una smorfia di disapprovazione se qualcuno, per questi tuoi versi, ti avesse insignito del titolo di vate della situazione italiana; e non per tua modestia, ma perché ti renderesti conto che in fondo le cose non sono cambiate e che vale ancora quel triste ammonimento del tuo Galileo: «Infelice quel popolo che ha bisogno di eroi!»
Infelice ancor di più la nostra Italia, in cui Berlusconi (che già è tanto) a parte ci si deve sentire degli eroi, di quelli pazzi, don-chisciottiani, che in mezzo a tanta melma pur si recano alle urne per infliggere con la matita (ma proprio fuor di senno costoro!) il colpo finale a…dei mulini a vento. E si perché se destra e sinistra sono ormai uguali, convien che s’abbandoni la furia in favore degli “Orlando che erano furiosi!
Convien sedersi intorno ad una tavola rotonda e compiaciuti verseggiare sulla corruzione – acclarata certo- del nostro(?) Cavaliere capo e dei suoi avversari politici che millantano invece onestà.
Ma poi ci si annoierà pure di queste conversazioni, si sa la regola è sempre banale e poco interessante, e per non intaccare la sacralità del fiero pasto non si farà più nome di politico alcuno.
E a coloro che ci disturberanno con triti discorsi sulla necessità di accollarci la responsabilità di operare comunque una scelta, noi risponderemo così:
“ Le Donne del Cavallier, l’arme, gli amori
Le cortesie, l’audaci imprese noi ignoriamo;
ignoriam pur di Veltron il programma
e di quei muson dei rossi guerrier l’istanza.
Canteremo sol di Madama Santanchè,
è l’unica a non essere ancor demodè.”
Ermelinda
30 giugno 2008 12.02

giovedì 19 giugno 2008

Noi e la controrivoluzione berlusconiana



Col passare degli anni, gli avvenimenti storici che non riuscivamo a decifrare ci risultano improvvisamente chiari, li si riesce a leggere con lucidità. Due anni fa, quando il centro-sinistra di Prodi avevano vinto le elezioni per circa 24.000 voti, nessuno degli elettori di centro-sinistra considerava lontanamente possibile l’ipotesi di un governo-tecnico con la Casa delle libertà finalizzato a riportare il paese alle urne pochi mesi dopo.

Dopo i cinque anni di governo Berlusconi, era troppa la voglia di voltar pagina, di affermare che il berlusconismo aveva ricevuto una sconfitta civile (nelle urne) e non giudiziaria (nelle aule di tribunale). Era troppa la voglia di vedere abrogate le leggi vergogna, di vedere il paese tornare tra il novero dei paesi civili. In realtà nel biennio 2006-08 abbiamo avuto la più deludente delle sorprese che ci si potesse attendere. Fino al 2001 infatti Berlusconi si era limitato a rivolgersi agli umori più nascosti del popolo italiano, andando ad attizzarli e risvegliarli. In questo biennio ci siamo accorti come è riuscito a farli emergere ed ad attribuirgli cittadinanza: non c’è più bisogno di un leader senza pudore che inneggi all’evasione fiscale, alla ritirata dello stato ladrone etc., ora sono gli italiani stessi ad invocare ciò ed a sbeffeggiare chi propone il contrario.

Quando Pasolini, negli anni ’70 dalle pagine del Corriere della sera parlava di un popolo violentato e sfigurato, chissà se si immaginava che si potesse arrivare a tanto. Gli strati economicamente più bassi della popolazione, quelli che noi non riusciamo più neanche ad incontrare se non quando vengono a lavarci la casa o quando gli portiamo la macchina ad aggiustare, proprio loro che per arrivare alla fine del mese avrebbero estremo bisogno della presenza dello stato, di un welfare capace di assicurargli i servizi necessari, di un sistema scolastico che funzioni (unica possibilità di riscatto onesto per i loro figli), applaudono e sostengono un leader che inneggia alla deregulation, allo smantellamento di ogni pur residuo stato sociale ed insultano i 'moralisti' che invece sostengono il contrario.

Un tempo, durante la guerra fredda, le società capitaliste dovevano dimostrare che la loro era una società solidale per non lasciare il proletariato ed il sotto-proletariato in balia di sogni rivoluzionari. Paradossalmente il merito degli stati comunisti è stato quello di rendere migliori gli stati dell’occidente capitalista. Venuta meno questa minaccia non c’è più motivo di un tale investimento, essendo inoltre divenuto il mercato ancor più vorace e competitivo. Noi italiani, poi, ci abbiamo messo del nostro: non solo gli strati più bassi della popolazione sono stati privati dalla storia di un bagaglio ideologico che solo gli permetteva di colmare i limiti culturali e quindi di partecipare alla dialettica sociale e politica, ma lasciati soli in balia degli anni ’80 e ’90 non hanno avuto il tempo di prendere coscienza della loro condizione, ne’ le sinistre hanno avuto modo di ripensarsi e riallacciare quel rapporto. Sono stati subito ammaliati da un altro bagaglio ideologico fatto di edonismo televisivo, retorica anti-statale (e quindi anti-solidale) e un mito del self made man secondo il quale in un orizzonte privo di regole è più facile emergere anche dal nulla. Basti vedere le interviste che, l’indomani della partecipazione di Berlusconi al meeting di Confindustria a Vicenza nel 2006, rilasciavano alcuni operai che dichiaravano di essere suoi elettori perché speravano, un domani, di diventare imprenditori. Inutile dire qual è il fine che chi tesse le fila di questo apparato ideologico si propone…

Nel 2006 ci era sfuggito tutto ciò. Ci era sfuggito che ora voltar pagina non è cosa facile, non basta un governo debole e pochi provvedimenti. Nei giorni immediatamente successivi l’insediamento del governo Prodi quando vedevo persone serie occupare finalmente i banchi del governo, di un governo debolissimo, provavo quasi un senso di disagio. Erano infatti inseriti in un contesto che con loro non c’entrava niente, ed allo stesso tempo così poco legittimati ad operare per invertire le tendenze che vi trovavano. Pensate a Guido Rossi commissario straordinario della Federcalcio: un signore al posto che era stato fino a poco prima di Carraro e Matarrese (tutt’altro che dei signori..); un intellettuale in mezzo ad un mondo anch’esso sfigurato dal denaro e dallo strapotere di gruppo che se ne fregava delle regole; un signore che con tutta probabilità sarebbe stato vissuto come un alieno da quel mondo, mandato lì a tentare di risollevare le sorti del calcio italiano da un governo debolissimo, con una scarsa legittimazione parlamentare ancor prima che popolare.

Ora non ci troviamo più di fronte ad un fidanzamento, prematuro ed adolescenziale tra l’Italia e Berlusconi come nel 2001. Si tratta di un vero e proprio matrimonio, consapevole, maturo, solido. Ecco perché noialtri pretendenti, con un’altra idea di convivenza siamo così frustrati. A questo punto però se ci dovesse essere un divorzio non potrebbe che essere definitivo. Tutto ciò ci appare lontano, ma è nostro compito spiegare alla parte contraente che ci sta più a cuore che ‘questo matrimonio non s’ha da fare’ mai più.

Nel 1975 a proposito dei cambiamenti che il nuovo fascismo stava praticando sul popolo italiano Pasolini scriveva:

era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono divenuti in pochi anni (specie nel centro sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione ad essi), sia al di fuori degli schemi populistici ed umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere[1].

Per me e credo per la mia generazione, nata negli anni ’80 e cresciuta in pieno berlusconismo, condividere questo amore per il popolo è davvero difficile: sempre da esso siamo stati delusi e mai abbiamo potuto ne’ sperare in esso ne’ godere di quella bellezza che Pasolini aveva conosciuto. Forse però per essere dei perenni pretendenti, anche quando nessuno ci considera degni non solo di governare ma anche di vivere in questa nazione, dobbiamo provare continuamente a tenere acceso questo amore. La nostra rabbia, il nostro rancore, in fondo, non sono nient’altro che la voglia di tornare a vivere sotto lo stesso tetto.

L’unica alternativa sarebbe quella di lasciarsi vincere dalla frustrazione e far perire questo amore una volta per tutte; ma, in questo caso, avrebbero davvero vinto loro…



[1] Da “L'articolo delle lucciole”, in Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1990, p. 131

martedì 10 giugno 2008

Radio Aut ed i nostri blogs



Viviamo in un tempo in cui si è perso il senso di ogni impresa collettiva: qualche decennio fa le ideologie soffocavano le individualità, la loro fantasia e la loro creatività; oggi paghiamo lo scotto di esserci liberati oltre che da esse, anche dalla voglia e dalla gioiosità di compiere delle azioni collettive, sapendo porci nel ruolo del gregario. Rinunciare al ruolo del protagonista in nome di un disegno generale che deve compiersi è diverso dal farlo solo nella consapevolezza che nella stessa dinamica di gruppo (in senso lato), in ogni situazione, c’è chi è protagonista e chi no; ragionando in nome dell’individualismo più sfrenato risulta assai difficile accettare che essere protagonisti o essere gregari non significa necessariamente essere migliori o essere peggiori. Al di là della retorica, c’è una dignità in entrambi i ruoli.

Il tutto e subito classico della non-ideologica ideologia consumistica ha poi pervaso anche l’ambito politico-valoriale: le dinamiche, le strategie, le visioni di insieme, insomma l’osservazione consapevole, passa in secondo piano rispetto alle rivendicazioni valoriali. Volendo insomma tirarsi fuori in un sol balzo dall’orizzonte edonistico del proprio tempo, ci si ritrova dentro con entrambi i piedi, innamorati persi delle proprie bellissime idee, pronti a mostrarsi aggressivi e rancorosi per difenderle.

Il blog è talvolta l’emblema di questa crisi: più che un agire politico (un percorso lungo, durante il quale ci si mette continuamente in gioco, non si sta su un piedistallo, ma si è parte tra le parti), è molto meglio un luogo, statico, dove svuotare le proprie idee. Tanto meglio se sono alla rinfusa, poco curate, buttate lì in maniera disattenta.

Quando ho deciso di mettere su questo blog ho subito ripensato alla scena de I cento passi in cui Peppino Impastato ed i suoi amici mettono su Radio Aut ed alle parole che Peppino rivolge al ragazzo che gli fornisce il materiale per iniziare a trasmettere: “a me basta che ci sentono a Cinisi […] quando tira viento, quando c’è il sole, quando c’è pioggia, quando non mi danno il permesso per fare un comizio, quando mi sequestrano il materiale: l’aria non ce la possono sequestrare…”. Quant’è diversa però Radio Aut da un blog: la prima era un’impresa collettiva di un gruppo di amici che la compivano non in nome di un’ideologia, di cose più grandi di loro, ma nel tentativo di combattere le ingiustizie che vivevano sulla loro pelle tutti i giorni (chi ha visto il film ricorderà bene la lite con i frikkettoni e l’occupazione della radio); il secondo rischia di essere pari ad un colpo di tosse: un diversivo del sistema per difendere il proprio, limitatissimo, status quo.

Per questo è importante ricordarsi sempre che ogni parola è un approdo, ma anche una nuova partenza. Soprattutto nel nostro tempo, in cui mettere ordine in noi stessi è così difficile non solo a causa della liquidità in cui viviamo, ma anche a causa dell’indolenza che portiamo in noi stessi (troppo spesso colpevolmente), scrivere parole può esserci d’aiuto. Se è pubblico però, deve essere politico, altrimenti meglio che resti segreto: non deve essere né un atto consolatorio, né un gioco finalizzato ad auto-assolversi; deve impegnarci profondamente. Nella speranza che il nuovo approdo, foriero di ancora nuove e più entusiasmanti partenze, non sia più un approdo solitario.

Special thanx to Cathall