mercoledì 27 aprile 2011

PRECARIO SARÀ LEI! – Cercando il nostro 5 Marzo

Il 5 Marzo 1943, oltre vent’anni dopo il biennio rosso, dopo la Legge n. 563 del 3 Aprile 1926 che aboliva il diritto di sciopero e le libertà sindacali, gli operai di Mirafiori avevano deciso di rompere il silenzio organizzando uno sciopero. Le rivendicazioni che ponevano erano di natura salariale ma non potevano che incrociare questioni politiche e di libertà, non fosse altro perché sfidavano un regime che aveva ridotto al silenzio il mondo del lavoro e che minacciava il lager per chiunque avesse disobbedito.
Il segnale concordato per far partire lo sciopero era il suono della sirena ma la direzione, informata di ciò, l’aveva disinnescata. A quel punto Leo Lanfranco, operaio comunista, si fermò ed attraversò la fabbrica invitando gli altri operai a fare altrettanto. In pochi giorni quella miccia accesa a Mirafiori divampò in tutto il Nord Italia in quello che sarà il primo atto, per certi versi costituente, della resistenza antifascista. In pochi giorni circa 100.000 lavoratori scioperarono. In una canzone degli Stormy six che narra quei fatti si ascolta “e corre qua e là /un ragazzo a dar la voce / si ferma un'altra fabbrica le braccia vanno in croce”. Il silenzio degli intellettuali mandati al confino, dei partiti e dei sindacati sciolti, della borghesia connivente col regime, venne rotto dagli operai. Da lì ebbe inizio il lungo cammino che arriverà infine a quel 25 Aprile oggi tanto maltrattato.

Sta tutta in quelle due immagini, Lanfranco che attraversa la fabbrica invitando allo sciopero ed il ragazzo che corre a dar la voce alle altre fabbriche di quel che accade a Mirafiori, la portata potenzialmente rivoluzionaria del lavoro come luogo di costruzione di un’identità collettiva, di una socialità in cui si comincia a dare un nome ai problemi, a condividerli ed a capire che li si può risolvere solo con la lotta. I regimi possono ingannare la borghesia cittadina, comprarsi i grandi industriali ma non i lavoratori: le rivolte sociali basate su questioni materiali, quando divampano, fanno presto a trasformarsi in rivoluzioni politiche. Da qui è facile anche dedurre la portata eversiva dei nostri tempi, laddove con la precarietà si è invece svuotato il lavoro di ogni dimensione collettiva, isolando i lavoratori ed annichilendo la loro capacità di organizzarsi e comparire sulla scena pubblica mettendo in crisi gli equilibri che di fronte all’impoverimento di chi lavora vanno in frantumi insieme alle parole spese per difenderli.

Chi inviterebbe Lanfranco oggi ad incrociare le braccia? Dove correrebbe quel ragazzo e che reazioni incontrerebbe? Gran parte del dramma dell’Italia (e non solo) di oggi è tutto qui: che non può esserci un 25 Aprile senza prima un 5 Marzo, un nostro 5 Marzo ancora difficile da immaginare.



---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------da LINKREDULO di mercoledì 26 aprile 2011 - http://www.linkredulo.it/opinioni/2003-precario-sara-lei--cercando-il-nostro-5-marzo.html

mercoledì 20 aprile 2011

PRECARIO SARÀ LEI! - Elogiarne uno per isolarne cento

Primo appuntamento della mia nuova rubrica settimanale, on line su Linkredulo ogni mercoledì sui temi legati alla precarietà.

Per descrivere brevemente le conseguenze dell'introduzione di misure di flessibilità nel diritto del lavoro bastano due elementi: riduzione delle tutele e dei diritti e progressivo isolamento del singolo lavoratore dagli altri, il tutto favorito dalla diminuzione dell'offerta di lavoro dovuta ai fenomeni della globalizzazione ed a una ristrutturazione dei processi produttivi favorita dall'innovazione tecnologica. Sono due fenomeni speculari: più un lavoratore è privo di diritti e tutele più è solo; più è solo, più i suoi residui diritti e tutele sono fragili e sotto attacco. È il classico fenomeno in cui, per dirla volgarmente, il cane si morde la coda. Restituire dignità al lavoro significa quindi prima di tutto spezzare questa catena.
In questo scenario un ruolo importante è recitato dal modo col quale vengono raccontate le rare storie di successo di giovani cresciuti e formatisi nell'ultimo decennio che sono riusciti ad inserirsi nel mondo del lavoro. L'ostensione di queste storie infatti, al pari delle storie di integrazione di singoli immigrati, può avere infatti un tono ed una finalità smaccatamente propagandistica. Il sottotesto è: non è vero che flessibilità è sinonimo di impoverimento e degrado, è possibile farcela con impegno e senza lamentarsi, anzi, chi lo fa è affetto dalla sindrome della volpe davanti all’uva, metafora di un successo che è incapace di raggiungere.


Lungi dallo spezzare la catena di cui sopra, un racconto interessato di quelle storie ha spesso la finalità di accrescere la solitudine del lavoratore precario non con strumenti legislativi ma con l’egemonia culturale dell’individualismo, propugnante l’idea per la quale l’unica emancipazione possibile sia quella individuale, disinteressata se non addirittura dichiaratamente contraria a quella collettiva. Il mito del self-made man, tanto in voga dagli anni ’80 in poi, è servito ad affascinare le giovani generazioni di allora e sulla forze del loro tacito assenso distruggere le tutele ed i diritti conquistate dal mondo del lavoro; oggi questa rappresentazione posticcia di quel mito serve a legittimare lo status quo tagliando le gambe a qualunque forma di solidarietà tra precari, l’unica che davvero potrebbe cambiare le cose.
Rappresentare il successo individuale come possibile all’epoca della precarietà significa delegittimare chi critica il modello di società fondato sulla guerra tra poveri (precari in questo caso). Non cascarci è oggi un dovere di dignità per chi ha visto la vita di fratelli maggiori, amici e (ormai è giunto il tempo purtroppo) genitori devastata dal mostro della precarietà.

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