venerdì 3 agosto 2012

La questione 'capitale' di Taranto



La questione della chiusura dello stabilimento dell'Ilva di Taranto è emblematica dei tempi in cui viviamo al pari del dibattito che a partire da essa è scaturito.
La nascita di quello stabilimento fu profondamente figlia del proprio tempo: di un'Italia che schierata tra le fila del capitalismo durante la guerra fredda non riusciva a sviluppare un tessuto produttivo omogeneo e solido su tutto il territorio nazionale e, attraverso l'intervento statale per mano della Cassa del Mezzogiorno, cercava di industrializzare le aree periferiche del paese. Nacquero così, tra gli altri, gli stabilimenti Italsider di Bagnoli e Taranto. Allora l'impatto ambientale non era considerato come un pericolo da tenere in considerazione e questi nuovi stabilimenti erano salutati positivamente (o non osteggiati) da tutto l'arco costituzionale: dai partiti di governo che speravano in questa maniera di far crescere il capitalismo italiano e dalle sinistre che vedevano nella fabbrica lo strumento per attuare quella metamorfosi del sottoproletariato meridionale in classe operaia consapevole di se stessa. Nacque così a Taranto il più grande stabilimento siderurgico d'Europa.
Con il passare dei decenni l'impatto ambientale di quella presenza diventò sempre più evidente, ma non portò a un'inversione di rotta. Purtroppo di mezzo ci passarono gli sciagurati anni '80, quando l'intervento pubblico smise per mano socialista di creare occupazione, potere d'acquisto e crescita economica ma si concentrò sulla coltivazioni di piccoli e grandi clientelismi capaci di garantire un ritorno elettorale sul breve termine. Contemporaneamente la classe operaia perdeva terreno: in primo luogo per via di una metamorfosi interna dovuta alle pratiche di esternalizzazione (che trasformavano gli ex-lavoratori dipendenti in piccoli imprenditori in concorrenza tra loro) e alla riduzione del numero degli occupati in virtù di un'innovazione tecnologica frenetica; in secondo luogo per ciò che avveniva al suo esterno: innanzitutto il crollo del blocco sovietico e la crescita di un enorme esercito industriale di riserva (che, come scrive Luciano Gallino, ha portato a quadruplicare in 20 anni la forza lavoro disponibile) e poi per il progressivo potere acquisito dalla finanza nella governance aziendale (che può essere rozzamente riassunto nel 'più forza agli azionisti, meno agli operai').
In questo contesto si inserisce il progressivo ritirarsi dello stato dall'economia: negli anni '90 lo stabilimento Italsider di Taranto passò in mano privata (ritornando Ilva). Erano anni in cui l'Italia doveva rientrare nell'euro e dimostrare di avere i conti in ordine fu il nostro lasciapassare: svendere patrimonio pubblico fu utile a tal fine. D'altronde se la vulgata egemone vuole che spesa pubblica è sempre sinonimo di clientelismo, se la classe operaia capace di imporre con la propria forza un intervento dello stato a proprio favore non c'è più, se le aziende private (in virtù del loro intreccio con la grande finanza) hanno una capacità di muoversi più agevolmente nella concorrenza, perché continuare a tenere in mano pubblica uno stabilimento mastodontico come quello di Taranto?
I Riva hanno acquistato lo stabilimento in questo contesto ed in questo stesso contesto hanno potuto amministrarlo impunemente negli ultimi 17 anni, negando il danno ambientale che stavano compiendo certi di farla franca in virtù del ricatto occupazione e approfittando delle maglie larghe lasciate dallo stato alle imprese.
Questa metamorfosi così imponente ha fatto sì che dal dibattito pubblico italiano nell'ultimo ventennio sia sparita completamente una discussione in merito alla politica industriale (riassumibile nel fatto che la triade di questioni 'cosa' 'quanto' e 'come' produrre sia di pubblico interesse e non possa essere lasciata solo nelle mani del mercato). Ciò ha fatto parte dell'effetto domino della crisi degli stati-nazionali europei ed ha ingenerato, in virtù della frustrazione della popolazione locale decimata dai mali prodotti dall'Ilva, l'idea che non valesse neanche la pena mettere in questione le modalità della produzione d'acciaio e che l'alternativa secca fosse quella tra la modalità presente (produttrice di diossina e tumori) e lo smantellamento della produzione. Nei confronti di questa semplificazione occorre oggi avere rispetto: in quale autorità avrebbero dovuto i cittadini di Taranto e dintorni riporre la loro fiducia affinché si imponesse alla proprietà di convertire ecologicamente la produzione? In uno stato e in una politica la cui forza contrattuale nei confronti della grande impresa tutta è stata ridotta quasi a zero?
Negli ultimi anni abbiamo spesso sentito rivendicare da parte delle oligarchie politiche il cosiddetto “primato della politica” quando hanno avuto bisogno di difendersi dalle indagini della magistratura o hanno dovuto resistere alle istanze poste dai movimenti. Mai si è tentato neanche timidamente di rivendicarlo quando si trattava di stabilire a chi spettasse l'ultima parola sulla vita e sulla morte, sul lavoro, il benessere e la povertà legati al funzionamento dei cicli produttivi. Farlo non avrebbe certamente cambiato lo stato delle cose ma sarebbe servito quantomeno a tenere vivo e presente un elemento problematico e drammatico di questi tempi.
Questa omissione continua oggi nella discussione innescata dalla decisione della magistratura: “bisogna conciliare ambiente e lavoro” dicono. In questa spiegazione e soluzione manca però un terzo attore, fondamentale, senza il quale non si riesce a capire come si è arrivati fin qui e non sarà possibile conciliare un bel niente: si tratta del capitale, quello a cui l'opinione pubblica ha smesso di fare domande e la politica ha smesso di imporre decisioni, lasciandolo unico attore sul palco della contemporaneità. Quando poi questo produce disastri li si può sempre camuffare per accidenti o (come nel caso di Taranto) liquidare, contrapponendo al formalismo degli azzeccagarbugli il realismo, il potere e il ricatto di chi produce ricchezza per sé distribuendo le briciole agli altri.

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da Il Corsaro (3/8/12)

martedì 17 luglio 2012

Il referendum anti-casta: politica e anti-politica al tempo della crisi



Per capire il momento che l'Italia sta vivendo occorre fare un passo indietro a quegli anni '80 nei quali tutto il mondo, belpaese incluso, hanno vissuto una brusca inversione di tendenza nelle politiche pubbliche e nelle culture politiche egemoni. Farlo non è facile, perché significa raccontare una storia di cui siamo ancora, ahi-noi, parte. Provarci però è a mio avviso l'unico tentativo possibile per uscire da un labirinto all'interno del quale vaghiamo confusi, talvolta cedendo al fatalismo, talaltra prestando il fianco a frustrazioni e retoriche semplicistiche.
Negli anni '80 l'Italia ha accumulato un immenso debito pubblico in una modalità che di keynesiano ha davvero poco: se nella dottrina del grande economista l'indebitamento era funzionale a finanziare politiche capaci di generare occupazione, quindi potere d'acquisto e una crescita economica capace di onorare i debiti contratti, negli anni '80 le forze politiche al governo (DC e PSI) hanno contratto debiti per fare regalie che gli garantissero ritorni elettorali sul breve termine. Quella fase ha ingenerato nell'opinione pubblica italiana un'equazione (con la quale tutt'ora siamo costretti a fare i conti) secondo la quale la spesa pubblica sarebbe tout court uno spreco e che tagliarla indistintamente servirebbe a liberare le energie del sistema produttivo.
Durante gli anni '90 questa eredità ideologica tutta nostrana si è sposata con la rivoluzione neo-conservatrice partita nel decennio precedente in ambito anglo-americano con le presidenze di Margareth Tatcher e Ronald Regan. Questo impasto era cementificato e tenuto assieme dal mito dell'imprenditore di se stesso, dall'idea che la competizione fosse l'unica forma possibile di convivenza e dalla sfiducia nell'intervento pubblico. La destra ha trovato in Berlusconi il suo interprete ideale e la sinistra si è divisa tra chi tentava di governare globalizzazione e neo-liberismo mitigandole con delle pillole di una socialdemocrazia in crisi e chi invece rifiutava ciò mostrandosi però incapace di formulare una proposta politica capace di affrancarsi dal minoritarismo.
L'unica utopia risolutrice sbandierata dal centro-sinistra italiano è stata quella dell'unificazione europea: il trasferimento di poteri dagli stati nazionali agli organismi comunitari è stato però tanto celere laddove creava nuove opportunità per il commercio e la speculazione finanziaria quanto immobile laddove si trattava di costruire gli strumenti politici per governare questa transizione e non lasciare i capitali liberi di ricattare gli stati membri.
Poi è arrivata la crisi economica americana del 2008 ed ha spazzato via tutto ciò, a tal punto che oggi, a soli 4 anni di distanza, sembra passato un secolo. Quando la crisi è arrivata in Europa, colpendo gli anelli deboli della catena (a cui abbiamo entusiasticamente preso parte non prendendo atto della mutata situazione), ha avuto gioco facile ad inserirsi negli interstizi lasciati da quel processo di unificazione incompiuto.
Oggi, con questo governo tecnico, stiamo procedendo su una strada che la Francia ha già ampiamente sconfessato nelle ultime elezioni e che si appresta a subire lo stesso destino in Germania. Possiamo così riassumerne la dottrina: per contrastare la fuga dei grandi investitori istituzionali (fondi pensione, fondi di investimento, compagnie assicurative e banche di investimento) bisogna assicurare che il rischio default sia scongiurato tagliando la spesa sociale ovunque (la spending review ne è un esempio) e, laddove è possibile, svendendo patrimonio pubblico. Il dettaglio che così facendo si tampona la situazione d'emergenza ma non si pongono le condizioni per una uscita strutturale dalla crisi non viene preso in considerazione: a distanza di pochi mesi ci stiamo abituando a ritrovarci con il disagio sociale provocato dalle misure lacrime e sangue, in recessione, nuovamente sotto il ricatto dei mercati e con un pezzo di patrimonio pubblico e di tutela sociale in meno da svendere o da ridimensionare.
Le carte da giocare per il nostro paese sono poche: solo una politica economica europea, la riscrittura delle regole del rapporto politica-finanza su base europea (a cominciare dalla Tobin Tax, passando per una riforma della BCE e delle reali misure anti-spread che mettano da parte l'austerity) possono provare a invertire la rotta. Per farlo servirebbe un equilibrio politico in Europa profondamente diverso da quello attuale (e che, almeno per quanto riguarda la Germania è possibile nel breve periodo, sperando che non sia troppo tardi!); equilibrio al quale l'Italia non può non partecipare. Nel frattempo però non si capisce quale forza politica italiana dovrebbe farsi carico di queste istanze, visto che il Pd sostiene questo governo che ha fatto diventare l'austerity dottrina costituzionale e i partiti alla sua sinistra si stanno dimostrando ancora incapaci di proporre un discorso capace di parlare a tutta la società.
L'opinione pubblica italiana d'altronde, in virtù soprattutto del silenzio dei grandi partiti e del conformismo dei grandi giornali, non sembra minimamente consapevole di quanto drammatica sia la situazione e laddove non cede al fatalismo individua come unica causa di mali a cui è incapace di dare una forma e una spiegazione i costi della casta e come unico elemento di rivendicazione la sua riduzione (vedi il referendum promosso dall'Unione popolare), riproponendo un riflesso condizionato che persino un animale, in una situazione di emergenza, riuscirebbe a rivedere e correggere.

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venerdì 11 maggio 2012

Il quinto stato. L'esperienza dell'adi nella mobilitazione dei dottorandi


Pubblico qui di seguito il mio intervento tenuto in qualità di rappresentante dell'adi Bari durante la discussione sul libro "La furia dei cervelli" di Allegri-Ciccarelli svoltasi a Bari il 10/5/12.


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Vi ringrazio dell'invito che avete voluto rivolgere all'associazione dei dottorandi e dei dottori di ricerca italiani di partecipare a questo dibattito. L'abbiamo subito colto come un'occasione per discutere della precarietà della nostra condizione non come di una contingenza risolvibile mantenendo inalterato il contesto all'interno del quale si colloca, come un accidente dovuto alla cattiveria o l'inefficienza dell'attuale classe politica, ma come una condizione strutturale di questi tempi e delle nostre società.

La quasi totalità dei miei colleghi, me compreso, erano studenti nel 2008, quando l'Occidente è stato scosso da una crisi economica epocale e in Italia gli studenti tornavano a riempire piazze ed università contro la legge 133 dell'allora governo Berlusconi e dell'allora ministro Gelmini. Si trattava di un provvedimento che tagliava fondi alle Università pubblica avviando un processo di trasformazione delle stesse in fondazioni di diritto privato. Di fatto la mobilitazione che da essa partì rivelava un disagio più profondo, un disagio che quel movimento ha avuto la responsabilità di non saper mettere a tema, sviluppare consapevolmente. Leggendo il libro di Ciccarelli e Allegri ho scoperto il riferimento ad un bellissimo intervento tenuto da Sergio Bologna di fronte agli studenti in mobilitazione a Siena.
Ne cito alcuni stralci:

Ciò che minaccia il vostro futuro non è soltanto il governo della signora Gelmini ma un pensiero economico bipartisan che non ha mai saputo né voluto mettere vincoli o imporre regole a una gestione del sistema finanziario dove nulla ormai assomiglia a un mercato ma tutto assomiglia a un gioco d’azzardo con i soldi dei lavoratori e della middle class che vive del proprio lavoro. […] Sono convinto che la lotta che state conducendo potrebbe essere utile a voi stessi e agli altri se ne approfittaste per crearvi un vostro sistema di pensiero, per procurarvi strumenti critici in grado di capire com’è accaduto quel che è accaduto e quali sono stati i perversi meccanismi che in questi ultimi vent’anni hanno dominato l’economia, senza che venissero contestati né da Destra né da Sinistra – a parte qualche voce isolata di studioso. […] Questa vostra lotta ha un senso se è un passo in avanti, se diventa atto costitutivo di un processo di autoformazione.”

E poi concludeva questo suo intervento dicendo: “Francamente, se la 133 viene ritirata la vostra condizione di fondo non cambia. E’ questa condizione che dovete cambiare”.

La situazione dei lavoratori precari, ed anche dei dottorandi e degli assegnisti di ricerca, che cercano delle ragioni per la loro condizione rischia di essere quella di Sisifo, costretto ogni qual volta crede di esser riuscito a portare il masso sul monte a vederlo ruzzolare nuovamente giù.

Lo scandalo più grande che riguarda la situazione dei dottorandi italiani risiede nel fatto che più delle metà di essi, soprattutto dopo la riforma Gelmini, si trovano a svolgere il dottorato di ricerca (durante il quale spesso devono mantenere aperti laboratori, sostituire i docenti a lezione o agli esami etc.) senza ricevere alcuna borse di studio ed anzi dovendo anche pagare delle tasse. Tale situazione vive in Puglia una felice anomalia: i dottorandi senza borsa ricevono una borsa di studio regionale che, al netto delle tasse, è sostanzialmente equiparata a quella dei colleghi che ricevono la borsa ministeriale. Ciò ha sanato una condizione che nel resto d'Italia ha ben poco di sano, generando grandi aspettative tra i dottorandi pugliesi. La borsa regionale fino a quest'anno che è stata inserita nello stesso bando di concorso e quindi viene erogata contestualmente all'inizio del dottorato, veniva erogata anno per anno tramite il bando Ritorno al futuro a dottorato iniziato. I dottorandi senza borsa si trovavano così a cominciare il dottorato e dopo 1 o 2 anni ricevevano la borsa regionale. Si trattava di una consuetudine, non di una certezza, ma i dottorandi senza borsa accettavano di cominciare il dottorato fiduciosi di questa consuetudine. Quando però la Regione ritardava l'erogazione delle borse ecco che lo smarrimento dei dottorandi cresceva, soprattutto in virtù del fatto che nel frattempo c'erano affitti da pagare, lavori serali da svolgere contemporaneamente al dottorato per assicurarsi una qualche fonte di reddito. Soprattutto ritornava lo spettro di un incubo: la possibilità di svolgere un lavoro gratuitamente per tre anni, dovendo anche pagare le tasse. Una condizione che in molti non avrebbero accettato senza la speranza-fiducia di ricevere la borsa regionale. L'adi in questo contesto ha portato avanti la trattativa con la Regione chiedendo conto dei ritardi e cercando di tenere unito il fronte dei dottorandi. Si sono susseguite affollatissime assemblee in cui tanti colleghi hanno preso la parola, raccontato la loro condizione, ipotizzato strade da percorrere per sollecitare la Regione ad adempiere alle promesse fatte. Quando l'erogazione delle borse è avvenuta c'è stato poi un generale rompete le righe a cui la costanza dell'associazione non è riuscita a far fronte cercando di estendere il discorso a questioni più ampie, cercando di coinvolgere i colleghi in discussioni sull'ipotesi di abolizione del valore legale del titolo di studio, sulla questione generazionale mediterranea lanciata dalla Primavera araba e su altre tematiche di pubblico interesse.

È avvenuto in piccolo quello Sergio Bologna paventava, avendo tragicamente ragione, riguardo l'Onda: si è interpretata un singola questione come la questione capitale risolta la quale torna la normalità. E ciò è avvenuto a livello esponenziale perché a differenze di quanto avvenuto con l'Onda, in questo caso abbiamo vinto.

Si rende quindi obbligatorio, onde ricadere in fenomeni di narcisismo avanguardistico, cercare di capire la condizione del lavoratore precario al di là facili condanne. Ci siamo chiesti perché così tanti nostri colleghi tornavano frettolosamente nei laboratori, nelle biblioteche, negli studi dei professori. Il dramma più grande della precarietà è la condizione di competizione perenne all'interno della quale cala il lavoratore con i propri pari. Nel nostro caso un dottorando sa che se vorrà fare carriera all'interno dell'accademia dovrà accumulare più titoli dei propri colleghi, dovrà dimostrare più affidabilità e dedizione di essi. E dovrà farlo nel ristretto tempo dei tre anni di dottorato. Una volta accettata come normale questa situazione il tempo da dedicare a mobilitazione collettive e pratiche cooperative è tempo sottratto alla competizione, competizione a cui gli altri continuano a dedicarcisi acquisendo un vantaggio. In questo senso la pedagogia dell'imprenditore di se stesso e l'ideologia del merito, per quanto azzoppate dalla crisi resistono ancora ben salde, con un tocco di cinismo in più: se prima l'idea dominante era 'devo dedicarmi alla mia carriera perché così verrò premiato e potrò affermarmi' ora è diventata 'visto il panorama di generale scarsità è bene non perdere nessuna occasione, non sottrarmi mai alla logica della competizione'.

La sfida più grande per chi voglia unire il mondo della precarietà sta tutta in questo duplice fronte: spezzare le catene di questa percezione di se stessi come monadi in competizione tra loro e, una volta accettata l'idea che un patto sociale è saltato definitivamente, pensarne insieme uno nuovo. Nel preparare questo intervento mi sono posto il problema di come figurarmi il crollo definitivo del patto sociale fordista, all'interno del quale è stata pensata l'Università, la pubblica istruzione e la ricerca sulla quale si sono poi abbattute le riforme dell'ultimo ventennio; un'Università, una pubblica istruzione ed una ricerca a cui a volte pensiamo con nostalgia come a un modello a cui tornare. L'ho immaginato come un muro che crolla, e nel crollo vede sbriciolarsi i mattoni che lo costituivano. Il problema delle lotte corporative che non hanno la capacità di farsi lotte politiche, di quelle degli studenti che chiedono solo il ritiro della 133, dei dottorandi che chiedono solo il riconoscimento delle borse di studio, dei precari dell'istruzione che chiedono solo la stabilizzazione, sta nel fatto che ogni categoria pensa a se stessa come ad un mattone caduto giù da un muro che per il resto è rimasto lì, intatto, pronto a riaccoglierlo. Non esiste più quel muro come non esiste più il patto sociale all'interno del quale ricollocarsi e non esiste più il mattone, sbriciolato dalla competizione nella quale i singoli lavoratori sono stati lanciati gli uni contro gli altri.

La ricostruzione di una soggettività capace di mettere in discussione gli squilibri del presente deve passare attraverso questo collo stretto, senza attraversare il quale è impossibile cambiare la nostra condizione.