martedì 28 febbraio 2012

Quei giorni a Piazza Tahrir. Il racconto del giornalista Mohamed Shoair



Si svolgerà domani mattina a Bari presso la Facoltà di Giurisprudenza un dibattito con Mohamed Shoair, giovane giornalista egiziano autore di I giorni di piazza Tahrir (Poiesis editrice), un racconto in presa diretta della rivoluzione egiziana. A distanza di un anno dalla cacciata di Mubarak ripercorrere quei giorni e farlo con chi li ha vissuti ha per l'opinione pubblica occidentale il significato di sottrarre il racconto ad una mummificazione che semplifica la storia, riducendola a quei pochi giorni che i media occidentali hanno puntato i riflettori sull'Egitto.

Mohamed Shoair non nasconde la vertigine nell'affrontare questo racconto. Nel suo libro si legge: “Le parole, per quanto eloquenti, non possono descrivere ciò che è accaduto nei giorni della rivoluzione. Semplicemente possiamo qualificarle come le giornate più importanti nella storia contemporanea dell'Egitto. Le parole sono incapaci di descrivere ciò che è accaduto e gli eventi che si sono susseguiti non lasciano alla stanca memoria la possibilità di ripercorrerli”.

Il racconto parte da sei anni prima del 2011, dalla nascita del movimento Kifaya (Basta!) che per primo ha avuto il merito di praticare in Egitto il dissenso al regime di Mubarak e che l'ha perseguito con costanza sfidando le repressioni nonostante i limiti che lo stesso Shoair evidenzi in esso (principalmente il suo eccessivo elitismo). L'Egitto era quindi in cammino da tempo, a tal punto che l'autore rivela di aver deciso di non emigrare proprio in virtù delle speranze suscitate da Kifaya: è difficile immaginare per noi occidentali che la scelta di partire o restare possa dipendere dalla speranza di un percorso di emancipazione collettiva e non da occasioni di affermazione personale e professionale.

Inevitabile il riferimento al ruolo dei social network, collocati però nella dimensione di uno dei tanti elementi che hanno reso possibile la rivoluzione: ben lontano quindi da un messianesimo che descrive la rete e le nuove tecnologie come profeti di una nuova era. Shoair non definisce quella di Piazza Tahrir come la “rivoluzione di Facebook e Twitter” ma come la “rivoluzione del sorriso”, di un popolo che consapevole e stanco della propria condizione ha deciso di riprendersi il proprio destino con l'autogoverno di una piazza della capitale, diventata in quei giorni “una repubblica indipendente con il proprio inno, i suoi saggi, il suo giornale, la sua radio... e il suo ospedale”. È indicativo che un movimento, un soggetto collettivo prenda il nome dal luogo in cui si è incontrato: Shoair rivendica come la rivoluzione sia stata capace di unire a Piazza Tahrir culture, generazioni e classi sociali diverse.

Il libro inizia e finisce con la constatazione che la cacciata di Mubarak non può essere che l'inizio della rivoluzione. Da questo punto e dalla complessità rivendicata proprio da Shoair nel descrivere il gennaio egiziano del 2011 bisogna partire per cercare di comprendere quanto è successo nei mesi successivi e quanto tutt'ora sta accedendo. Una lettura poco curiosa, ma anche anche comprensibilmente preoccupata, tende in Occidente a ridurre il periodo post-rivoluzionario tunisino ed egiziano ad una sorta di referendum nel quale i popoli decideranno di adeguare stili di vita ed istituzioni ai canoni occidentali o di consegnarsi al fondamentalismo islamico ed al terrorismo. La vicenda è molto più complessa. Di certo la vittoria nelle elezioni che negli ultimi mesi si sono svolte in Tunisia ed Egitto da parte dei partiti islamici (che nei momenti rivoluzionari erano rimasti ai margini) ripropone il tema dell'organizzazione dei movimenti collettivi e delle difficoltà che essi incontrano dopo aver rovesciato i tiranni nel gestire le fasi costituenti.


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da LINKREDULO del 28/2/12 - http://www.linkredulo.it/giornale/politica/2481-quei-giorni-a-piazza-tahrir-il-racconto-del-giornalista-mohamed-shoair.html

sabato 25 febbraio 2012

Governo Monti: insensibili a chi?


Ieri Mario Monti, di fronte ai finanzieri italiani cui ha fatto visita Piazza Affari, ha commentato l'ipotesi che i sindacati si dichiarino indisponibili a discutere di una riforma del mercato del lavoro che metta in discussione l'articolo 18 con queste parole: “Cerchiamo di essere sensibili, sul piano intellettuale, ad argomentazioni da qualsiasi parte provengano. Allo stesso tempo ci sforziamo di essere insensibili alle pressioni”. L'insensibilità alle pressioni è coerente con l'immagine data fin'ora dal governo Monti, quella cioè di un governo del buon senso che mette da parte le contrapposizioni, le rivendicazioni corporative e pensa al bene dell'Italia.

Ci troveremmo quindi di fronte ad un governo venuto da Marte, senza il bisogno di rispondere a nessuno del proprio operato e libero di ignorare i piagnistei di tutti, e tra questi tutti ci sono anche i sindacati. Il problema in questo sillogismo risiede proprio in quel “tutti”, e per coglierlo non c'è bisogno di ricorrere a teorie del complottoCorsivo: la realtà è sotto i nostri occhi. A cosa serve lo spread se non ad indicare ai governi quanto e come devo essere “sensibili” alla volontà degli investitori istituzionali? E cosa chiedono gli investitori istituzionali: la garanzia che i crediti che hanno contratto vengano onorati da tutti, stati compresi ed a qualunque costo sociale. David Harvey nel suo “Breve storia del neoliberismo” individua come passaggio dall'egemonia keynesiana a quella neoliberista la sostituzione della priorità della piena occupazione (e quindi degli investimenti necessari a garantirla) con quella del pareggio di bilancio delle pubbliche amministrazioni (che quindi devono operare dei tagli per garantirlo).

Dall'estate abbiamo imparato a conoscere lo spread come termometro dell'appetibilità finanziaria dei nostri titoli di stato. Lungi dall'essere insensibile alle pressioni, il governo Monti è nato proprio come risposta alle pressioni che gli investitori istituzionali, seguiti da Francia e Germania e dal Fmi, hanno fatto sulla politica italiana dimostrando inequivocabilmente di non fidarsi più del governo Berlusconi. Alla vigilia dell'affidamento dell'incarico di formare il governo a Monti, l'economista Giacomo Vaciago, vicino al futuro premier, dichiarò in un'intervista al Fatto quotidiano che il futuro governo sarebbe dovuto “piacere più al resto del mondo che agli italiani”, intendendo per “resto del mondo” proprio le cancellerie europee e gli investitori istituzionali.

Altro che insensibile alle pressioni, il governo Monti è, come qualunque altro governo, figlio di ben specifiche pressioni. Il che non lo rende di per sé cattivo, ma non lo autorizza neanche a delegittimare il ruolo del sindacato relegando le rivendicazioni che questo avanza alla stregua di quelle dei farmacisti, degli evasori e dei notai, catalogate tutte genericamente sotto l'etichetta 'interessi corporativi'. Dalla caduta del muro di Berlino (ma in parte già dal decennio precedente) assistiamo alla mistificazione di chi si presenta post-ideologico descrivendo le leggi del mercato come una specie di stato di natura a cui non si può far altro che adeguarcisi. Se c'è una discontinuità di cui abbiamo bisogno non è quella della sobrietà e del loden ma quella che consiste nel riprenderci la sovranità che ci è stata sottratta dalle mistificazioni dei sedicenti insensibili.


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da LINKREDULO del 21/2/12 - http://linkredulo.it/giornale/politica/2480-governo-monti-insensibili-a-chi.html

"Le cialde non sono tutte uguali. I politici sì!"



L’ultima pubblicità di una nota marca di caffè con Paolo Bonolis e Luca Laurenti gioca su un consumatore ‘qualunquista’ che dice “le cialde sono tutti uguali” suscitando lo scandalo dei beati Bonolis e Laurenti che scendono dal Paradiso per spiegare all’ignaro consumatore qualunquista quale eresia abbia detto e che le cialde “da fuori sono tutte uguali, ma dentro no”. Guardando quella scenetta mi è parso di riconoscermi ogni volta che sento dire frasi che mettono sullo stesso piano tutta la politica. Attenzione: non è mia intenzione assolvere in alcuna maniera neanche un esponente della nostra classe dirigente, ma quando questa equiparazione è la giustificazione per atteggiamenti di indifferenza o di bieco familismo (‘in fondo pensano tutti a se stessi, tanto vale che lo faccio anch’io’) di solito mi incazzo davvero e sono capace di stare a parlare accalorandomi fino a quando il mio interlocutore non si stanca.

È difficile pensare che la pubblicità del duo Bonolis-Laurenti non giochi consapevolmente su questa ambiguità, soprattutto in questi tempi in cui la credibilità della classe politica è ai minimi storici. Per questo è di una agghiacciante e spietata attualità: cosa è veramente capace di cambiarti una giornata? Per cosa vale la pena spendere del tempo (e del denaro) per vivere meglio? Per un oggetto di consumo, vero spartiacque contemporaneo nella costruzione della personalità. Se poi l’oggetto in questione è il caffè il nostro discorso è ancora più valido visto il suo alto valore simbolico: un prodotto capace di riassumere in sé un’identità nazionale ed uno stile di vita. Se non è possibile (e non ne vale la pena) cambiare il mondo tanto vale comprare qualcosa che cambi la giornata: un bel caffè appunto!


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da LINKREDULO del 13/2/12 - http://linkredulo.it/giornale/opinioni/2478-qle-cialde-non-sono-tutte-uguali-i-politici-siq.html

L'empasse di Formigoni


È stato l'unico leader all'interno del centro-destra capace di crescere all'ombra di Berlusconi coltivandosi un profilo autonomo senza entrare in contrasto col capo. L'essere governatore della Lombardia per tanto tempo l'ha aiutato: al governo in periferia, ma nella periferia più ricca d'Italia, con la possibilità di mantenersi lontano dalla conflittualità della politica nazionale ma allo stesso tempo potendo dare prova di capacità di governo in un'ente importantissimo. L'organicità a Comunione e Liberazione ha fatto il resto: gli ha garantito un radicamento in un'ampia fetta dell'opinione pubblica vicina al centro-destra proteggendolo da faide interne.

Non è un caso che sia stato l'unico, qualche mese fa, a lanciare la sua candidatura a successore di Berlusconi in concorrenza ad Alfano, sostenuto proprio dal Cavaliere e dallo stato maggiore del Pdl. Il suo essere uomo del Nord gli permetteva di farsi portatore della continuità d'alleanza con la Lega che infatti aveva detto di volerlo sostenere in caso di primarie contro Alfano. L'attivismo telematico del governatore lombardo fugava gli ultimi dubbi e impensieriva non poco i suoi oppositori interni: l'ipotesi di una sfida contro un candidato sostenuto dalla Lega e da Cl, radicato in Lombardia e in tutto il Nord appariva cosa ardua.

Questa la situazione fino a qualche mese. Formigoni sembrava uscire indenne anche dalla sconfitta di Pisapia, dai personaggi folkloristici della sua maggioranza al Pirellone (vedi Nicole Minetti ed il Trota) e da qualche scandalo in Regione che coinvolgeva consiglieri della sua maggioranza ed ex-assessori.

Negli ultimi mesi però è cambiato il vento: via il governo Berlusconi, via la certezza dell'allenza Pdl-Lega. Formigoni sembra in una situazione di empasse simile a quella di Vendola: vuole essere leader di una coalizione che al momento non c'è. Potrebbe essere la carta giocata dal Pdl per rispondere alla Lega qualora quest'ultima decidesse di rompere definitivamente l'alleanza. In tal caso da essere anello di congiunzione col partito di Bossi, Formigoni dovrebbe sfidarlo sul suo stesso terreno, diventare più aggressivo (al pari di come fece Franceschini con l'ei fu “Sinistra Arcobaleno” nel 2008). Ma per ora non può vestire questi nuovi panni, sperando che la frattura si ricostruisca. Deve quindi assistere all'attivismo della Lega al Nord e nella sua Lombardia senza poter rispondere. Nel frattempo il tempo passa ed il “caso Ponzoni” (suo ex-assessore arrestato per appropriazione indebita, corruzione, concussione, peculato, bancarotta fraudolenta, violazione della legge per il finanziamento ai partiti e rivelazione del segreto d'ufficio) contribuisce ad incrinare l'immagine di amministratore virtuoso che Formigoni si era costruito col tempo.


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da LINKREDULO del 19/1/12 - http://linkredulo.it/giornale/politica/2467-lempasse-di-formigoni-.html

Angelino Alfano e i giovani d'oggi


La nomina di Alfano a segretario del Pdl è stata senz'ombra di dubbio la novità politica più rilevante nel centro-destra dopo la batosta elettorale alle amministrative della scorsa primavera. Dopo 17 anni Berlusconi sembrava fare per la prima volta un passo indietro, reagendo all'impopolarità certificata prima dalle amministrative e poi dai referendum con una cessione di sovranità ad un politico molto più giovane di lui ma dalla comprovata fiducia (dove lo trovi uno che ci mette la faccia su un qualcosa di impresentabile come il lodo Alfano?).

Lui, il giovane segretario, si è saputo fin'ora giocare al meglio quest'occasione: non ha mai sconfessato la leadeship berlusconiana, ha potuto presentarsi come l'unico capace di fare da sintesi tra le diverse correnti del Pdl proprio in virtù della sua estraneità alle beghe interne garantita dalla vicinanza al capo. I vari capi-bastone hanno accettato di buon grado la nomina di Alfano proprio perché, assieme a ridimensionare le proprie velleità, faceva la stessa cosa con quelle altrui garantendo un periodo di tregua armata.

La cosa più sorprendente però Alfano è riuscito a farla con l'opinione pubblica: puntando tutto sulla memoria a breve termine degli italiani, si è presentato come la novità, giocando molto nell'apparire ggiovane (rigorosamente con due g), capace di interagire con i social network, di parlare un linguaggio pratico. E fin'ora ci è riuscito: ha rimesso in pista il Pdl minando la certezza di quanti, me compreso, credevano che nel post-berlusconismo il Pdl sarebbe imploso. Il governo tecnico ed il fallimento del governo Berlusconi sono stati per lui una benedizione, la grande occasione per lasciare che il passato si allontani da sé senza il bisogno che nessuno ne prenda le distanze. Non lo ammetterà mai pubblicamente, ma sa meglio di chiunque altro che è così.

La partita però è ancora tutta da giocare: Formigoni ha già annunciato di volersi candidare alle primarie del Pdl per succedere a Berlusconi e la Lega, prima della nascita del governo tecnico che la sta allontanando dal Pdl, aveva dichiarato di volerlo sostenere. Alfano avrebbe il sostegno dei berlusconiani di ferro e di gran parte della componente ex-an, sarebbe cioè la candidatura ufficiale, sostenuta dallo stato maggiore del partito. In quest'ottica si collocano le ipotesi di tandem con Alemanno o con Giorgia Meloni (caldeggiata dalla componente giovanile). Un ticket targato Agrigento-Roma potrebbe però rivelarsi un grosso handicap, soprattutto se l'altro candidato è un uomo radicato nel Nord come Formigoni e potrebbe ottenere il sostegno della Lega. La soluzione potrebbe venire proprio da un tentativo (magari sostenuto da Berlusconi) di un tandem con un nome proposto proprio dalla Lega, che non potrebbe che essere Maroni.

Il governo tecnico inoltre ha offerto ad Alfano l'occasione di riallacciare i rapporti con l'Udc, forza culturalmente affine al centro-destra ma indisponibile ad allearvisi fino a quando questo sarebbe stato guidato da Berlusconi.

Come si evolverà la vicenda politica di Alfano e del Pdl è difficile da prevedere: fino ad ora, dal post-referendum tutto sembra essere andato per il verso giusto ma è difficile pensare che Alfano riuscirà a mantenere unito il partito e salda la sua leadership anche dopo una eventuale sconfitta elettorale, cosa invece riuscita a Berlusconi ben due volte nel 1996 e nel 2006. Una cosa è però certa: quella che per il centro-sinistra sembrava una passeggiata è stata complicata da una serie di circostanze e dall'attivismo che Alfano ha sfoderato.


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da LINKREDULO del 4/1/12 - http://linkredulo.it/giornale/politica/2450-angelino-alfano-e-i-giovani-doggi.html

Berlusconi ancora in sella?


Dopo aver analizzato la situazione del Terzo Polo, della Lega, del Pd, di Sel, Idv e Fds proviamo ad analizzare la situazione del Pdl. Non a caso ho lasciato per ultimo il partito di Berlusconi: per esso l’analisi è particolarmente complessa, gravata dall’incognita del futuro del suo leader e delle molteplici e diversificate componenti che è riuscito in questi anni a tenere insieme. Per tale motivo affronterò la questione in tre articoli diversi, uno incentrato sul leader uscente e gli altri due sui due candidati alla leadership venuti allo scoperto: Alfano e Formigoni.

Le dimissioni di Berlusconi erano lo scenario più inaspettato in quella primavera 2008 che vide l’inizio di questa legislatura. Tanta acqua è passata sotto i ponti ed il mondo di oggi è radicalmente diverso da quello di tre anni fa: basti citare la crisi finanziaria, l’elezione di Obama e la primavera araba, tre eventi epocali che hanno ridisegnato gli equilibri pre-esistenti persino in quell’Italia che sembrava così refrattaria al cambiamento.

Berlusconi non è stato, non è e non sarà un leader normale, è bene ricordarcelo ancora oggi che è nell’ombra. È a capo di un partito personale nel quale il dissenso non ha diritto di cittadinanza e dispone di un potere economico e mediatico capace di per sé di condizionare pesantemente la scena politica. Le 17 leggi ad personam approvate sotto i suoi governi (circa due all’anno) spiegano meglio di qualunque analisi i moventi della sua “discesa in campo” e la sua indisponibilità (meglio dire impossibilità) ad uscire di scena come qualunque altro uomo politico. Le dimissioni che ha rassegnato ormai più di un mese fa non cambiano la scena: nel Pdl nessuno osa sconfessare apertamente la linea del leader, chiunque voglia costruire uno spazio per la propria leadership deve o dichiararsene erede in toto (Alfano) o fare salti mortali per mostrarsi diverso senza attaccarlo (Formigoni). Il suo potere mediatico è intatto e pronto ad assecondarne qualunque scelta: rilanciare la propria leadership o lanciare quella da lui benedetta. I suoi interessi economici e giudiziari restano intatti e la difficoltà di passare il testimone ad un successore è ad essi strettamente legato: come fare a fidarsi in questo ambito di qualcuno che non sia egli stesso?

Qualunque successore, sopravvivendo politicamente a Berlusconi, potrebbe prima o poi, in un momento di crisi di consenso, scegliere di sacrificare gli interessi dell’impopolare predecessore per salvarsi. Alfano è nato politicamente mettendo la faccia su quel lodo che garantiva a Berlusconi l’impunità. Questo ‘peccato originale’ lo rende agli occhi di Berlusconi più affidabile degli altri. Mai però quanto se stesso, motivo per il quale non ci sarebbe da stupirsi se, contro ogni evidenza, Berlusconi covasse ancora in sé la speranza di tornare in sella.


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da LINKREDULO del 29/12/11 - http://linkredulo.it/giornale/politica/2445-berlusconi-ancora-in-sella.html


Idv, Sel e Fds alle prese con l'opposizione a Monti (ed al Pd)


Continuiamo la nostra peregrinazione tra i partiti politici, i leaders e le loro condizioni dopo la nascita del governo Monti. Oggi affrontiamo la situazione della galassia del centro-sinistra esterna al Pd: Idv, Sel e Fds.

Di queste tre forze solo l'Idv è presente in Parlamento, la Federazione della Sinistra è l'unica a non aver fatto alcuna apertura di credito al governo Monti, Sel è l'unica che ha mire egemoniche sulla coalizione. Idv e Sel stavano lavorando ad un'alleanza organica con il Pd, la Fds no. Date queste premesse è facile intendere come la loro situazione sia profondamente diversa.

Idv. Ha votato la fiducia al governo Monti non senza porre da subito tutte le proprie riserve. Oggi è l'unica delle tre forze suddette a fare opposizione in Parlamento. L'alleanza con il Pd traballa ma sarà difficile per il partito di Bersani fare a meno serenamente dell'elettorato dipietrista, candidato ad ingrossarsi in questo periodo di opposizione parlamentare solitaria a sinistra. Inoltre, a differenza delle altre due forze, l'Idv ha un elettorato molto pragmatico che potrebbe accettare l'alleanza con il Pd che oggi sostiene Monti, a fronte di un programma chiaro e condivisibile. L'uscita di scena (?) che sembrava dover travolgere l'Idv al momento non sembra far paura.

Sel. Delle tre è la forza più in difficoltà. Sembra sempre più irrealizzabile l'ambizione di Vendola di vincere le primarie e rappresentare tutta la coalizione facendo da traino ad un ritorno massiccio della sinistra in Parlamento. Dovrebbe infatti essere leader di una coalizione in cui convivono partiti che sostengono Monti e partiti che gli si oppongono: compito la cui difficoltà è direttamente proporzionale alla durata del governo. Più questi durerà, meno saranno sufficienti le acrobazione retoriche di Vendola per dimostrarsi diverso dal governo Monti, ma non ostile al Pd che lo sostienei. Cresce l'indignazione sociale e l'opinione pubblica apprezzerà sempre meno gli equilibrismi e sempre più le parole nette: Sel rischia di essere stritolata da un lato dalle parole rassicuranti e dal richiamo al senso di responsabilità del Pd e dall'altro dall'intransigenza della Fds.

Fds. Ce n'eravamo dimenticati. Da un lato la sovraesposizione di Vendola, rafforzato da una capacità di leggere il presente e dall'agilità di una leadeship carismatica e vincente, dall'altro le liti interne, l'immobilismo figlio delle incertezze sul percorso politico da intraprendere verso le prossime elezioni politiche ci avevano fatto dimenticare di loro. Li ha fatti risorgere dapprima il sostegno dal primo minuto al poi sindaco di Napoli De Magistris (cosa che gli ha permesso di presentarsi come co-vincitori delle ammistrative del 2011), poi il governo Monti , i cui equilibri hanno fatto chiarezza sulla lettura che della crisi dà il Pd e sulle incognite del progetto vendoliano. Più il governo Monti dura, più la Fds può crescere, soprattutto se sarà in grado di proporre un progetto politico capace di superare il minoritarismo: cosa tutt'altro che facile.


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da LINKREDULO del 19/12/11 - http://linkredulo.it/giornale/politica/2439-idv-sel-e-fds-alle-prese-con-lopposizione-a-monti-ed-al-pd.html

Il Pd: da (presunto) vincitore contro Berlusconi a ostaggio di Monti


Continuiamo il nostro approfondimento sull’attuale situazione politica. Dopo aver preso in esame il Terzo polo e la Lega Nord, oggi dedichiamo le nostre attenzioni al Partito democratico.

Il governo Monti può essere rivendicato dal partito di Bersani come un successo ma, di fatto, commissariando la politica commissaria anche il Pd, reo di non aver saputo tracciare durante l’estate altra rotta che non fosse quella del congelamento di se stesso insieme a Berlusconi in nome della responsabilità nazionale. La rivendicazione di una differenza dal centro-destra risiedeva non nel “noi sappiamo cosa fare”, ma nel “noi siamo disposti ad affidarci ai tecnici”, troppo poco per un partito che ambisce ad essere il più suffragato e ad esprimere una leadership.

Ora si trova in una situazione paradossale: quella di chi deve rivendicare una vittoria sostenere un esecutivo lontano politicamente e culturalmente dalle aspettative del proprio elettorato. Nel crocevia della globalizzazione il centro-sinistra italiano ha sempre posto l’accento sulla priorità della stabilità dei conti pubblici per attuare poi, in un tempo imprecisato, politiche redistributive. Quel tempo imprecisato non è mai arrivato perché il centro-destra è sempre stato capace di capitalizzare elettoralmente il dissenso verso le misure di austerithy, vincendo le elezioni e segnando l’inversione di tendenza. Oggi il copione si ripete: se il Pdl cerca di apparire quanto più distaccato dalle misure di Monti ed il Terzo polo esalta il suo ‘buon senso’ ed il superamento del bipolarismo, il Pd si mostra convinto nel sostegno al governo, ci mette la faccia motivando il tutto nell’ottica del ‘serve non far fallire il paese’ e sperando che l’elettorato conservi la memoria che l’amaro calice va bevuto per colpa dei ritardi e delle incapacità di Berlusconi e del Pdl. Sarà difficile proporsi come alternativa e perno di una coalizione con partiti che non sostengono il governo. Il congelamento dello scontro politico rischia di essere per il Pd un colpo di spugna che cancella in poco tempo la memoria del passato recente, unica forza reale al momento capace di dargli lo slancio per farlo diventare maggioranza.


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da LINKREDULO del 9/12/11 - http://linkredulo.it/giornale/politica/2418-il-pd-da-presunto-vincitore-contro-berlusconi-a-ostaggio-di-monti.html

La Lega al Purgatorio dell'opposizione


I programmi della Lega erano altri e fino ad un anno fa tutto sembrava andare bene: continuare a crescere elettoralmente, conquistare posti chiavi nelle amministrazioni locali, ostentare un cinico distacco dal Pdl e dagli scandali legati a Berlusconi sostenendo la linea che si stava insieme perché c'era bisogno dei voti per il federalismo.

Un epilogo del berlusconismo era prevedibile già un anno fa ed oltre (non fosse altro per questioni anagrafiche), ma la Lega non se ne preoccupava, anzi: in assenza di partiti nazionali capaci guidare una transizione (apparendo fino all'anno scorso il Pd sempre più in ritirata al Nord) e con il vento dell'anti-politica che spirava forte, la speranza era quella di capitalizzare le esperienze di governo nelle amministrazioni del Nord ed i pochi risultati del governo centrale targati Lega per alzare il livello delle rivendicazioni, magari rispolverando il vessillo secessionista. Era un piano che sembrava filare liscio ed invece...

I festeggiamenti per i 150 anni non hanno giovato: soprattutto nel Piemonte di fresca conquista con l'elezione di Cota le celebrazioni hanno risvegliato un sentimento patriottico in tutta l'opinione pubblica, marginalizzando gli esponenti leghisti che se ne sono allontanati o lo hanno irriso. L'alluvione in Veneto e la cattiva gestione che il governo centrale ne ha fatto hanno creato malumore anche nel tanto declamato Nord-Est. La perdurante situazione di stallo del governo centrale, incapace di affrontare la crisi, ha reso sempre più difficile presentare l'alleanza con Berlusconi come l'amaro calice, necessario per incassare dei risultati che non arrivavano, facendo montare nella base e nell'elettorato una legittima domanda: ma ne vale la pena? Questa domanda, come un pericoloso tarlo, ha scalato i vertici del partito, arrivando per la prima volta nella sua storia ad una evidente spaccatura. La sconfitta a Milano e la posizione presa in occasione dei referendum (sintomo di come i vertici avevano perso il polso dell'opinione pubblica) sono stati la dimostrazione evidente che qualcosa si era rotto.

La lunga estate, con manovre su manovre, situazioni di empasse create anche dalle prese di posizioni di Bossi, ha logorato ulteriormente il partito che è apparso ormai parte delle pastoie romane incapaci di decidere e lontane dalle preoccupazioni della gente.

Fatte queste premesse non è difficile capire perché il governo Monti ed il passaggio all'opposizione sia stato vissuto quasi con gioia dalla Lega. La crisi del berlusconismo che si credeva catastrofica si è verificata ma è stata congelata dal governo tecnico. L'innalzamento del livello del conflitto, la riscoperta della battaglia secessionista (vedi la convocazione del parlamento del nord) appaiono in questa fase poco credibili, anche perché la politica tutta è stata commissariata e non è ad essa che l'opinione pubblica guarda sperando che risolva i problemi. Le misure di austerithy però possono cambiare velocemente lo scenario: dal successo o insuccesso del governo Monti, dalla sua popolarità dipende anche il destino della Lega.


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da LINKREDULO del 25/11/11 - http://linkredulo.it/giornale/politica/2397-alfredo-ferrara.html

Il Parlamento dei militi ignoti


Che rapido cambio di scena. Solo qualche settimana fa ho scritto un articolo intitolandolo “La legislatura dei 15 minuti di celebrità”: elencavo tutti i parlamentari saliti agli onori della cronaca grazie alle loro inquietudini legate al dare o non dare la fiducia al governo, restare o non restare nel proprio gruppo parlamentare, passare o non passare dall'opposizione alla maggioranza (e viceversa). Il riferimento alla celebre frase di Andy Wahrol pensavo rendesse l'idea di un parlamento perfetto specchio della società dello spettacolo, in cui l'edonismo e l'esibizionismo individuale prevale trasformando ogni passaggio parlamentare in un'occasione per diventare delle star e farsi puntare i riflettori addosso per qualche ora.

Le dimissioni di Berlusconi e l'ampia fiducia che il Parlamento ha votato a Mario Monti, unito alla sobrietà dei nuovi ministri (scusate se uso anch'io quest'espressione ormai abusata...) ha mutato completamente la situazione, gettando nell'anonimato tutto il Parlamento. Il voto contrario di Alessandra Mussoni, Scilipoti e Rotondi non è riuscito a conquistare che qualche titoletto e qualche articolo in secondo piano, data la sua totale ininfluenza. Da una società dell'abbondanza in cui c'è spazio per tutti, siamo diventati un paese in guerra in cui è dovere di tutti stringersi dietro al condottiero, celebrandone le doti carismatiche, sorridendo ad ogni sua battuta ed esaltandosi per le sue gesta.

Da star a tempo determinato i parlamentari si sono trasformati in tanti militi ignoti, che si sacrificano per la patria in un momento delicato, offrendo il proprio voto e non proferendo parola, che sarebbe interpretata più come una diserzione che come l'esercizio del diritto di critica. Ed è così che i loro discorsi nei talk show diventano sempre più dei vaniloqui, ruotando attorno ad un nulla che deve restare ben lontano dal proporsi come qualcosa di concreto, qualcosa che potrebbe assomigliare anche vagamente a quella politica che è temporaneamente sospesa fino a data da destinarsi.


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da LINKREDULO del 22/11/11 - http://linkredulo.it/giornale/politica/2389-il-parlamento-dei-militi-ignoti.html


Vince solo il Terzo polo (per ora!)


Decifrare l'attuale situazione politica è alquanto complicato, soprattutto perché le dimissioni di Berlusconi e l'iniziativa di Napolitano che ha portato ad un governo delle larghissime intese lasciano tante incognite sul terreno cui soltanto l'evolversi dei fatti saprà dare delle risposte.

E' scontato dire che a perdere siano stato Berlusconi, Bossi, il Pdl e la Lega: eletti in pompa magna con un'ampia maggioranza si sono dimostrati incapaci di governare la crisi. Sulla loro situazione ci torneremo in un altro articolo. E' difficile poter sostenere che a vincere sia stato il centro-sinistra, costretto a condividere con Berlusconi il sostegno ad un governo che rischia di logorare e dividere i protagonisti del cosìddetto “Patto di Vasto”. Anche su questo torneremo in un altro articolo.

Un vincitore certo però c'è: il terzo polo di Fini, Casini e Rutelli. Sono gli unici che potranno sostenere convintamente il governo Monti senza esitazioni o imbarazzi nei confronti del proprio elettorato. Casini e Rutelli da tempo sostengono il superamento del bipolarismo, Fini il superamento delle categorie destra/sinistra. Il governo Monti è la perfetta incarnazione di quanto hanno predicato i tre in questi anni. Culturalmente inoltre il professore di Varese è senza dubbio molto più affine al PPE che al PSE, e la via d'uscita dalla crisi che traccerà sarà difficilmente difforme dalla via egemone in Europa: tagli, liberalizzazioni, sostegno alla crescita senza politiche redistributive o costruzione di nuovo welfare. Condirà il tutto con qualche misura “di sinistra” per rendere la minestra meno indigesta al Pd, ma la via maestra sarà coerente con i governi della Merkel, di Sarkozy e di Cameron.

Inoltre la sconfitta di Berlusconi li fa uscire dalla marginalità in cui erano stati scacciati: i mercati hanno mostrato la più totale sfiducia nel governo italiano, nei suoi annunci, nelle sue lotte intestine e nella sua mancanza di prospettiva di lungo termine (dovuta alla fase calante della leadeship berlusconiana). Nel 2008 svincolandosi da Casini e nel 2010 cacciando Fini, Berlusconi ha preteso di poter fare tutto da solo, di rappresentare da solo tutto il centro-destra italiano: moderati, cattolici, liberali, conservatori etc. E' andato a sbattere violentemente contro i mercati che, sfiduciandolo, ne hanno minato l'immagine di garante dei ceti produttivi che, ora, guardano a Monti con fiducia e speranza. Chi lo sosterrà senza esitazioni e senza distinguo (e solo il terzo polo può farlo!), partecipando dell'immagine di un governo fattivo, lontano dalla gazzarra degli ultimi anni, è destinato ad accrescere i propri consensi.


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da LINKREDULO del 16/11/11 - http://linkredulo.it/giornale/politica/2374-vince-solo-il-terzo-polo-per-ora.html

Il Finanzcapitalismo sfiducia Berlusconi. C'è da rallegrarsene?


Al di là della febbrile attesa per l'epilogo del governo Berlusconi e della storia politica che sembra con esso chiudersi, ciò che si sta svolgendo in queste settimane in Europa svela un tratto importante della nostra epoca e degli equilibri internazionali disegnati negli ultimi trent'anni.

La proposta dell'ormai ex premier greco Papandreu e (in misura diversa) la possibilità che la caduta del governo Berlusconi porti ad elezioni anticipate (e non ad un governo tecnico che si faccia interprete delle direttive di Ue e Fmi) hanno allarmato le cancellerie europee. Che il ricorrere al debito per finanziare le manovre annuali significasse in una certa misura la perdita della sovranità degli Stati è stato detto da più parti da diversi anni. Il centro-sinistra italiano ha ispirato a questo principio gran parte delle proprie politiche di rigore (colpevolmente non collegando questo passo necessario ad un complessivo disegno di redistribuzione della ricchezza).

Ogni anno gli Stati indebitati tornano sul mercato, chiedendo agli investitori istituzionali di prestargli i soldi per attuare le proprie politiche. Gli investitori istituzionali però, si sa, non prestano soldi in cambio di niente: chiedono in cambio garanzie di rendimento a breve termine. Lo Stato che ne usufruisce deve quindi ispirare le proprie politiche in questa direzione: da qui nasce lo smantellamento della spesa sociale ed il blocco di qualunque investimento sul lungo termine. Per qualche decennio ci siamo illusi che questo meccanismo fosse governabile. Il rischio default (reale o meno) ha gettato via quest'illusione: occorre assecondare il volere dei creditori e farlo alla svelta, ed oggi i creditori chiedono che vengano attuate le misure di cui Ue e Fmi si sono fatti interpreti e chiedono che Berlusconi si faccia da parte, perché non credono alle promesse elettorali, non ascoltano la propaganda ma guardano i dati di fatto.

Al di là di tutti i fattori interni che stanno determinando la crisi del berlusconismo, forse alle battute finali, non bisogna dimenticare questo: il primo a sfiduciare il governo italiano è quello che Luciano Gallino ha chiamato Finanzcapitalismo, quell'evoluzione del capitalismo determinata dalla progressiva cannibalizzazione del capitalismo industriale e dello stato keynesiano da parte della finanza. Le decisioni degli Stati dipendono cioè sempre più dalle richieste che provengono dal mondo finanziario e sempre meno dalla volontà popolare di cui questo complesso meccanismo può in condizioni normali fare a meno (riducendola a recita) ed in condizioni di crisi, quando cioè il tutto diventa palese, deve farne a meno.

Il berlusconismo è nato come interprete dell'epoca in cui tutto questo era visto come fattore virtuoso e rischia di finire perché incapace di corrispondere alle richieste che quel mondo avanza. Chiudere i conti con esso non può significare mostrarsi interlocutori più seri delle richieste provenienti dai mercati finanziari ma farsi interpreti di un progetto che unisca la riconquista della sovranità degli Stati (o magari dell'Europa) ad un disegno di redistribuzione della ricchezza e delle opportunità.


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da LINKREDULO dell'8/11/11 - http://linkredulo.it/giornale/politica/2345-il-finanzcapitalismo-sfiducia-berlusconi-ce-da-rallegrarsene.html


Ancora contro i lavoratori?

L'idea che facilitando i licenziamenti si favorisca la crescita è vecchia, ed oltre ad essere vecchia ha dimostrato di essere fallimentare.

L'Italia, in ritardo rispetto agli altri paesi occidentali ha cominciato a sperimentare la flessibilità alla fine degli anni '90 col pacchetto Treu e nel 2003 con la Legge 30. L'effetto è stato un impoverimento generale, una generazione che non entrerà mai nel mercato del lavoro stabilmente e che quindi non riuscirà mai a versare i contributi previdenziali, un calo dei consumi. In questo scenario è chiaro che gli Stati sono stati obbligati a ricorrere al debito per finanziare ciò che resta del loro welfare, mentre proseguivano silenziosamente a smantellarlo passo dopo passo.

L'abolizione dell'articolo 18 era stato un cavallo di battaglia del governo Berlusconi nel 2002, poi non se ne fece niente per l'opposizione ferrea della Cgil che riuscì a coinvolgere anche gli altri sindacati in uno storico sciopero generale. Fu una vittoria di Pirro perché di lì a poco arrivò per l'appunto la Legge 30 che ha reso inesigibile l'articolo 18 per i nuovi assunti.

La crisi del 2008 ha svelato quanto questo modello, reazione alla globalizzazione dei mercati ed alle illusioni della Finanza, fosse insostenibile. Ma le èlites finanziarie di un'Europa che non vuole diventare grande (cioè diventare politica) invece di invertire la rotta sembrano correre come un treno sulla rotta tracciata dal neo-liberismo che fin qui ci ha condotto: tagli al welfare e deregolamentazione del mercato del lavoro. I conti pubblici saranno salvi ancora per un altro po', ma il paese continuerà ad impoverirsi. Tra breve torneremo a stupirci che le cose non sono andate come speravamo. Ma forse sarà troppo tardi.


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da LINKREDULO del 27/10/11 - http://linkredulo.it/giornale/politica/2320-ancora-contro-i-lavoratori.html