domenica 23 novembre 2008

Nell' Onda oltre la cresta dell'onda

E' stato un mese importante l'ultimo. Dopo la grande delusione derivata dal fallimento del governo Prodi e le elezioni che ci hanno sbattuto in faccia come Berlusconi non sia più un incidente di percorso della nostra storia, ci è servita la scure del ministro Gelmini per ricostruire una partecipazione civile.
Molte cose si sono dette sull'Onda: paragoni, elogi, grandi aspettative. Per chi sta vivendo questa mobilitazione dall'interno però le cose significative sono altre. Personalmente uno degli aspetti che più mi ha motivato ed incoraggiato sono state le svariate storie ed esperienze che ho incontrato e conosciuto: colleghi studenti (tantissimi) e docenti di ogni grado (pochi). Ognuno mi ha insegnato qualcosa. In un'assemblea chiassosa è stato utile ad esempio ascoltare dalla bocca di un rappresentante dei Cobas un richiamo ad una riflessione politica seria sul momento che stavamo e che stiamo vivendo, scevra dall'urgenza organizzativa che ha eccitato il movimento in tanti momenti del suo percorso.
E' vero, nell'agire politico c'è bisogno di fermarsi e di riflettere sempre, anche quando il percorso che si sta compiendo sembra viaggiare su due binari lunghissimi e con una forte spinta motrice.
Non dobbiamo dimenticarci dove eravamo non più tardi di tre mesi fa: cittadini di un paese in cui non ci riconoscevamo, analfabeti di parole capaci di rimetterci in moto, disillusi circa la possibilità di creare un lessico che andasse un po' oltre il ristretto ambito del privato, dell'individuale. E laddove questo lessico c'era era tutto declinato al negativo: un anatema rivolto contro tutto e tutti che celava una lamentela auto-assolutiva.
Non dimentichiamoci quello che la nostra generazione faceva in questo contesto: era in larga parte a casa propria. Più volte nei mesi passati ho pensato che quando il vittimismo si impossessa delle energie fresche, quelle che nessun discorso qualunquista e cinico dovrebbe riuscire a zittire, l'orizzonte di quella generazione è davvero grigio. Siamo cresciuti arrabbiati e delusi nei confronti di una generazione nata incendiaria e morta pompiera senza tuttavia renderci conto che il nostro iper-criticismo privo di azione conseguente significava essere pompieri pronti a spegnere qualunque fuoco. Anche quello che ancora deve arrivare.
Poi c'è stata l'Onda anomala con i milioni di universitari in piazza, in assemblee, presenti ad ogni nuova convocazione. Nella nostra Bari in una settimana abbiamo indetto due manifestazione alle quasi hanno risposto quasi 10.000 persone in entrambe le occasioni, nonostante organizzate in pochissimo tempo e convocate con prospettive molto meno ampie. Forse neanche dopo la mattanza del G8 di Genova si è avuta così tanta partecipazione in tutta Italia.
E' stata davvero una sbornia collettiva. Qualcuno dei promotori ha pensato arrogantemente "finalmente hanno capito quello che noi diciamo da anni"; qualcuno della stampa ha detto che era un nuovo '68; qualcun'altro che il movimento ha riaperto una questione generazione.
Oggi il movimento è in calo, soprattutto di partecipazione ed in molti casi anche di entusiasmo. E' un effetto inevitabile: se le cifre continuavano ad essere quelle sarebbe davvero avvenuta una rivoluzione. D'altronde il prestar fiducia alle sirene dei media ed alla loro retorica rende facile la disillusione collettiva. Sparire dai media per molti può significare che tutto è finito, che abbiamo perso e che forse la prossima volta conviene pensarci due volte prima di cominciare.
La vera battaglia comincia oggi: oggi che occorre andare oltre il semplice atto di testimonianza, quello che non costa nulla fare, al massimo solo mezza giornata di studio o di cazzeggio. Comincia ora che è necessario far intrecciare e dialogare nella quotidianità le lezioni, lo studio e l'impegno. La nostra generazione non può essere cambiata così repentinamente in un mese: o avevamo sbagliato prima a leggerla timida, impaurita e quindi individualista, o sbagliavamo due settimane fa, davanti alle piazze stracolme ad inneggiare al risveglio delle coscienze, alla generazione che si alza e si mette in cammino. Io ritengo che l'analisi di due mesi fa era giusta e che tuttavia oggi abbiamo una opportunità che prima non avevamo.
In un dibattito sul '68 tenutosi in occasione del festival della filosofia di Roma Paolo Flores d'Arcais ha sostenuto che una delle principali responsabilità del movimento del '68 è stata l'incapacità di incanalare le proprie istanze nelle istituzioni, di averle lasciate nella fluidità del movimento (fidandosi della sua forza anche numerica). Oggi dobbiamo essere capaci di fare proprio questo. Di trasformare le nostre ragioni in proposte, di trasformare noi stessi da carne da macello incazzata a soggetti politici.
In questo mese ci siamo mossi sull'onda dell'indignazione, sulla parte più emotiva. Ora è dovere di chi in quello che diceva in assemblea e gridava in piazza crede davvero e vuole dargli una continuità, continuare a lavorare e ad elaborare. I tentativi di elaborazione e di discussioni privi di un interlocutore polemico o di una controparte esterna sono una gran responsabilità, per questo la maggior parte dei movimenti si inceppano proprio qui: i rischi di frammentazione e spaccature sono dietro l'angolo, qualcuno inevitabilmente resterà scontento. Non c'è però scelta se non vogliamo essere ricordato come il movimento più breve della storia d'Italia.
Dal tema dell'Università e della ricerca la nostra riflessione può espandersi a tutti i temi che ci riguardano, riscoprendo anche il modo nel quale ci riguardano e ci toccano. Nei primi giorni di mobilitazione è stato bello vedere come si affermava sempre di più l'idea che le motivazioni per le quali facevamo volantinaggio, fermavamo la gente per intervistarla, affiggevamo manifesti, non erano goliardate o motivi per perdere tempo ma tematiche che ci toccavano da vicino. Perché ora non dovremmo provare a fare lo stesso parlando anche della crisi e del lavoro (il nostro di domani e quello degli altri nell'oggi)? Perché non estendere il discorso alla grande emergenza democratica che vive in nostro paese? Abbiamo davvero la possibilità di risollevare una questione generazionale (impegno che richiede qualcosa di un più di un mese) ricreando un lessico e delle esperienze comuni. Alcune forse ci sono già, ma non parlandoci e non confrontandoci non ne siamo consapevoli.
Un motivo per non farlo ci sarebbe: senza il referente polemico e senza l'urgenza di un decreto legge in via di approvazione è praticamente impossibile pensare di portare in piazza nello stesso tempo le stesse persone con la stessa consapevolezza. La politica però non è fatta di vette continue, in larga parte è fatta da una semina che non si sa se porterà al raccolto ed a che raccolto porterà. Se non si continua a seminare però, non lo si scoprirà mai.