martedì 17 luglio 2012

Il referendum anti-casta: politica e anti-politica al tempo della crisi



Per capire il momento che l'Italia sta vivendo occorre fare un passo indietro a quegli anni '80 nei quali tutto il mondo, belpaese incluso, hanno vissuto una brusca inversione di tendenza nelle politiche pubbliche e nelle culture politiche egemoni. Farlo non è facile, perché significa raccontare una storia di cui siamo ancora, ahi-noi, parte. Provarci però è a mio avviso l'unico tentativo possibile per uscire da un labirinto all'interno del quale vaghiamo confusi, talvolta cedendo al fatalismo, talaltra prestando il fianco a frustrazioni e retoriche semplicistiche.
Negli anni '80 l'Italia ha accumulato un immenso debito pubblico in una modalità che di keynesiano ha davvero poco: se nella dottrina del grande economista l'indebitamento era funzionale a finanziare politiche capaci di generare occupazione, quindi potere d'acquisto e una crescita economica capace di onorare i debiti contratti, negli anni '80 le forze politiche al governo (DC e PSI) hanno contratto debiti per fare regalie che gli garantissero ritorni elettorali sul breve termine. Quella fase ha ingenerato nell'opinione pubblica italiana un'equazione (con la quale tutt'ora siamo costretti a fare i conti) secondo la quale la spesa pubblica sarebbe tout court uno spreco e che tagliarla indistintamente servirebbe a liberare le energie del sistema produttivo.
Durante gli anni '90 questa eredità ideologica tutta nostrana si è sposata con la rivoluzione neo-conservatrice partita nel decennio precedente in ambito anglo-americano con le presidenze di Margareth Tatcher e Ronald Regan. Questo impasto era cementificato e tenuto assieme dal mito dell'imprenditore di se stesso, dall'idea che la competizione fosse l'unica forma possibile di convivenza e dalla sfiducia nell'intervento pubblico. La destra ha trovato in Berlusconi il suo interprete ideale e la sinistra si è divisa tra chi tentava di governare globalizzazione e neo-liberismo mitigandole con delle pillole di una socialdemocrazia in crisi e chi invece rifiutava ciò mostrandosi però incapace di formulare una proposta politica capace di affrancarsi dal minoritarismo.
L'unica utopia risolutrice sbandierata dal centro-sinistra italiano è stata quella dell'unificazione europea: il trasferimento di poteri dagli stati nazionali agli organismi comunitari è stato però tanto celere laddove creava nuove opportunità per il commercio e la speculazione finanziaria quanto immobile laddove si trattava di costruire gli strumenti politici per governare questa transizione e non lasciare i capitali liberi di ricattare gli stati membri.
Poi è arrivata la crisi economica americana del 2008 ed ha spazzato via tutto ciò, a tal punto che oggi, a soli 4 anni di distanza, sembra passato un secolo. Quando la crisi è arrivata in Europa, colpendo gli anelli deboli della catena (a cui abbiamo entusiasticamente preso parte non prendendo atto della mutata situazione), ha avuto gioco facile ad inserirsi negli interstizi lasciati da quel processo di unificazione incompiuto.
Oggi, con questo governo tecnico, stiamo procedendo su una strada che la Francia ha già ampiamente sconfessato nelle ultime elezioni e che si appresta a subire lo stesso destino in Germania. Possiamo così riassumerne la dottrina: per contrastare la fuga dei grandi investitori istituzionali (fondi pensione, fondi di investimento, compagnie assicurative e banche di investimento) bisogna assicurare che il rischio default sia scongiurato tagliando la spesa sociale ovunque (la spending review ne è un esempio) e, laddove è possibile, svendendo patrimonio pubblico. Il dettaglio che così facendo si tampona la situazione d'emergenza ma non si pongono le condizioni per una uscita strutturale dalla crisi non viene preso in considerazione: a distanza di pochi mesi ci stiamo abituando a ritrovarci con il disagio sociale provocato dalle misure lacrime e sangue, in recessione, nuovamente sotto il ricatto dei mercati e con un pezzo di patrimonio pubblico e di tutela sociale in meno da svendere o da ridimensionare.
Le carte da giocare per il nostro paese sono poche: solo una politica economica europea, la riscrittura delle regole del rapporto politica-finanza su base europea (a cominciare dalla Tobin Tax, passando per una riforma della BCE e delle reali misure anti-spread che mettano da parte l'austerity) possono provare a invertire la rotta. Per farlo servirebbe un equilibrio politico in Europa profondamente diverso da quello attuale (e che, almeno per quanto riguarda la Germania è possibile nel breve periodo, sperando che non sia troppo tardi!); equilibrio al quale l'Italia non può non partecipare. Nel frattempo però non si capisce quale forza politica italiana dovrebbe farsi carico di queste istanze, visto che il Pd sostiene questo governo che ha fatto diventare l'austerity dottrina costituzionale e i partiti alla sua sinistra si stanno dimostrando ancora incapaci di proporre un discorso capace di parlare a tutta la società.
L'opinione pubblica italiana d'altronde, in virtù soprattutto del silenzio dei grandi partiti e del conformismo dei grandi giornali, non sembra minimamente consapevole di quanto drammatica sia la situazione e laddove non cede al fatalismo individua come unica causa di mali a cui è incapace di dare una forma e una spiegazione i costi della casta e come unico elemento di rivendicazione la sua riduzione (vedi il referendum promosso dall'Unione popolare), riproponendo un riflesso condizionato che persino un animale, in una situazione di emergenza, riuscirebbe a rivedere e correggere.

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