lunedì 6 dicembre 2010

Pensieri che un paese civile tiene lontano dalla testa di un laureando

da LINKREDULO di Martedì 30 Novembre 2010 - http://www.linkredulo.it/scuola-e-universita/1652-pensieri-che-un-paese-civile-tiene-lontano-dalla-testa-di-un-laureando.html

Laurearsi era nel secondo dopoguerra un momento di sicura emancipazione: i genitori di qualunque estrazione sociale facevano di tutto per permettere ai propri figli di conseguire l’agognato titolo di studio. La seduta di laurea era un momento di festa per tutta la famiglia che vedeva i propri sacrifici finalmente ripagati: il futuro era tutto in discesa. Ora purtroppo non è così: i subbugli che in questi giorni provengono dalla scuola e dall’università sono la testimonianza di una generazione a cui è stato scippato il futuro, la serenità e la voglia di pensarlo come un luogo in cui realizzare i propri sogni, stare meglio. Anche la seduta di laurea, per me ormai vicinissima, ha un sapore agrodolce: un ciclo di sacrifici, impegno, studio si chiude ma le incognite che incombono sul futuro sono talmente tante che fanno irruzione nella gioia.

Riconquistare il futuro per la nostra generazione passa principalmente dal rivendicare il valore dei propri sacrifici, fatti e da fare. Ecco un elenco dei pensieri che un paese civile dovrebbe tener lontano dalla mente di un laureando, un paese che dobbiamo impegnarci a costruire insieme, con quelle energie, quelle capacità e quelle forze che ci siamo costruiti senza che ci vengano riconosciute.

  • Forse scegliendo il mio percorso universitario non mi sarei dovuto far guidare dalle mie passioni!
  • Se avrò lontanamente voglia di fare ricerca dovrò necessariamente emigrare all’estero rinunciando a contribuire allo sviluppo del mio paese…
  • Quanto mi piacerebbe avere la possibilità di decidere il posto in cui vivere e non farmi trasportare in questo o quel posto dalle offerte di lavoro! Precario naturalmente…
  • Speriamo che chi leggerà il mio curriculum non lo scarti leggendo soltanto l’Università da cui provengo!
  • Ah, se papà, mamma o uno zio qualunque sedessero in posti chiave nel settore in cui mi piacerebbe lavorare!
  • Ah, se avessi scelto di studiare nel settore in cui papà, mamma o uno zio qualunque siedono in posti chiave!
  • Meno male che ho papà, mamma o uno zio qualunque che siedono in posti chiave nel settore in cui mi sono laureato!
  • A che serve l’Università pubblica se poi le aziende ti assumono solo se hai frequentato costosissimi masters?
  • Tra masters, stage, contratti part time, tirocini, etc., chissà se tra 5 anni riuscirò ad avere uno stipendio dignitoso ed un lavoro che mi piace…
  • E adesso rimettiamoci a studiare per accedere all’Ordine professionale.
  • Questi anni tra baronati, inefficienze e servizi carenti mi fanno quasi apparire la precarietà una prospettiva accettabile…
  • Da domani dovrò pensare solo a me stesso, conquistarmi ad ogni costo quel poco che il mercato del lavoro mi offre!

martedì 23 novembre 2010

Intervista a mio nonno Alfredo

Circa quattro anni fa, all'interno di una rubrica che curavo su coratolive.it in cui intervistavo personaggi del mio paese, dedicai due spazi alla memoria storica. In uno intervistai Vito Caldara, bracciante agricolo e militante della CGIL e gli chiesi di raccontarmi le lotte bracciantili ed in un'altra intervistai mio nonno paterno (di cui porto il nome) chiedendogli di raccontare la sua esperienza di emigrante in Canada negli anni '30-'50. Nella primavera scorsa mio nonno, all'età di 97 anni, ci ha lasciati.
Per timore che quell'intervista, che racconta una storia verso cui mi sento debitore, vada persa la ripubblico su questo blog.



…stai tranquillo?

Sto tranquillo!


Come ti ricordi Corato prima di partire per il Canada?


Una grande povertà. Io lavoravo come meccanico, ma guadagnavo molto poco.



E dell’infanzia che ricordi hai?

Ricordo che giocavo con un carrettino. Un'altra volta misi su un teatrino: prendevo delle figure che mettevo in un apparecchio con una luce dentro e dei vetri che rifletteva queste figure sul muro.



Che scuola hai frequentato?

Sono andato alla scuola elementare: all’epoca era fino all’ottava classe, ma io la feci fino alla sesta.



In che edificio?


Al Fornelli.



Tutti e sei gli anni?

No, c’erano altri edifici. Sono stato lì un paio di anni e poi altri magazzini: locali al pian terreno di palazzi erano affittati a scuole.



E il riscaldamento?


No, non c’era riscaldamento.



E dopo la scuola che facesti?


Dopo la scuola mio fratello mi portò in campagna, ma non andavamo molto d’accordo: e siccome lui era anche più grande di me ed aveva più esperienza di cinque anni, quindi era lui che voleva decidere.



I tuoi amici di scuola come erano vestiti, che persone erano?


C’erano sia ricchi che poveri, e li si riconosceva subito, i poveri si vestivano come capitava ed alcuni figli di ricchi venivano in carrozza ..e allora dopo la scuola…. Io dissi che volevo fare il meccanico, che era un lavoro

importante; la mia famiglia non voleva: le mie sorelle volevano che io andassi da un negozio a fare pratica e l’indomani, aprire un negozio di tessuti. Ma pensai che il negozio quando volevo lo aprivo.


Tu sei andato in Canada nel 1935… I soldi del biglietto dove li trovasti?

Li prendemmo in prestito dalla banca. E poi dall’America spedivamo i soldi per saldare il debito, allora gli interessi erano molto alti.



Chi venne con te della tua famiglia?


Eravamo 3 sorelle e 2 fratelli. Partimmo da Napoli, andammo prima in Inghilterra, a Liverpool, e lì trovammo una nave grande che in 7 giorni ci portò in Canada.



Non viaggiasti in prima classe?


No, la prima volta che andammo viaggiammo in terza classe. L’ultima volta tornammo in prima classe: ci dettero da mangiare un po’ di più, il letto era migliore, ma sono fesserie..!



Quando siete arrivati in Canada come vi hanno accolto? Vi hanno fatto delle visite mediche?


No, quello le fanno sulla nave: visitavano per vedere se avevi qualche malattia infettiva, e se l’avevi non ti facevano partire.



Arrivato là che lavori hai fatto?


Il lavoro non si trovava. C’erano una disoccupazione mondiale, una crisi mondiale. E allora stavo a spasso: andavo a lavorare in un posto, mi tenevano una settimana e poi mi licenziavano. Ho fatto molti lavori.



Tipo?


Trovai lavoro come meccanico in un garage, poi dopo 1-2 settimane mi dissero che non avevano più bisogno.



E quando non c’era lavoro come facevi per mangiare?


Le mie sorelle hanno sempre lavorato come sarte. Stavamo tutti insieme, eravamo tutti scapoli. E loro in quel periodo mettevano i soldi per mangiare. A quel punto la fortuna la ebbi io (lo sguardo si illumina e la voce assume un ritmo molto più lento, cadenzato, tradendo un certo orgoglio…). Mi venne un’idea: mettermi a vendere cose. Mi andavo a trattenere da un amico che aveva una salumeria, un italiano professore di musica, che da anziano aprì questo negozio. Un giorno venne un uomo a portargli del caffè. Chiesi a questo amico cosa facesse quest’uomo e lui mi disse “sta facendo una fortuna, va vendendo caffè nelle case private”. Decisi di provare a fare lo stesso. Chiesi 5 dollari a mia sorella e le dissi che mi servivano per comprare del caffè, e cominciare a guadagnare qualche cosa. E andai a persone che conoscevo, a case private, degli italiani a venderlo. Lo acquistavo a chilo… lo andai a comprare da quello che trovai nel negozio, che aveva la torrefazione. Ricordo che aveva vari tipi di caffè con nomi diversi, ed io non sapevo niente.



E quale prendesti?


Gli chiesi di darmi quello migliore, non potevo dirgli che non capivo niente… E cominciai a girare a vendere questo caffè: andavo a piedi, perché se prendevo il tram se ne andava tutto il profitto che avevo fatto. Dopo un poco mio fratello aveva la macchina e vedendo che io andavo in giro con i pacchi di caffè a tracolla me la dette.



E insomma ti stava andando bene…


Una volta avuta la macchina giravo e vendevo bene. Lo seppe il venditore, quello che lo vendeva a me, e per paura che gli rubassi il mestiere mi dette un caffè brutto, miscelato di porcherie: quando lo portai alla gente mi dissero “che razza di caffè mi hai portato? Quello è veleno..!” Lo fece apposta. A quel punto andai da una ditta canadese, e continuai a vendere. Guadagnavo sì, ma non tantissimo. A mio fratello venne un’idea, mi disse “e se noi vendiamo qualche altra cosa quando andiamo in casa?” E cominciammo dal formaggio, continuando con la pasta, etc.



Giravate con la macchina piena di tutte queste cose?


Si. Parlammo con le ditte che producevano caffè, latte, pasta, ma ci servivano la prima volta, poi dopo ci dicevano che servivano solo ai negozianti perché per legge i grossisti possono vendere solo ai negozianti. Io ero un privato e non mi servivano più. E allora decisi di comprarmi un negozio con i soldi che avevamo fatto. C’erano degli annunci sui giornali e trovammo un negozio di due vecchietti canadesi. Non avevano niente nel negozio, e lo vendevano: erano stanchi. E per 50 dollari ebbi il negozio. A me non serviva quello che vendevano loro, ma la licenza. E allora tornai dalle ditte, gli dissi di avere il negozio in tale posto e mi portarono le cose.



Ma dopo quanti anni cominciasti a fare questo lavoro?


Dopo 2-3 anni… e allora comprammo una proprietà, un fabbricato di due piani, dove stava una ditta canadese che faceva gelati. Lo comprammo per 15.000 dollari.



Ed avevi fatto così tanti soldi vendendo caffè?


Erano già un paio d’anni che lo facevo. Ed aprimmo il negozio. C’erano due piccoli magazzini: io buttai giù il muro e feci uno spazio grande. Attorno lì c’erano molti italiani che abitavano e venivano a fare la spesa. E dietro abitavamo noi. Ma era ancora piccolo, decisi che ne volevo uno più grande. A quel punto andammo in Via San Lorenzo: comprammo un grande magazzino. Il proprietario era un siriano.



Venivano tante persone a comprare?


Si, anche dagli altri paesi. Vendevamo a prezzi più bassi dagli altri negozi. E poi io decisi di non perdere i clienti che mi ero fatto fuori, ed allora dissi a mio fratello di restare nel negozio ed io andavo in giro in macchina dai clienti di fuori. E quel negozio è stata la nostra fortuna.



I canadesi come vedevano il fatto che un immigrato si fosse arricchito? Erano invidiosi?


Si, erano invidiosi. Vedevano che gli italiani venivano da fuori e si compravano le proprietà.



Ma vi dicevano qualcosa? Vi criticavano?


No, altrimenti si faceva lite. Da dietro, tra di loro parlavano, ma noi sempre sentivamo quelle cose. Gli italiani lavoravano e mettevano sempre soldi da parte.



E gli altri italiani che lavori facevano?


C’erano alcuni che facevano lavori umili ed altri che erano grandi industriali. C’era uno che faceva gli aerei.



Tu sei stato là dal ’35 al ’57, durante il fascismo e la seconda guerra mondiale. Là arrivavano le notizie?


Certo, lì c’erano i fascisti. Anche dei canadesi, figli di italiani che erano fascisti.



Ma gli altri canadesi quando vedevano voi italiani vi sfottevano, vi chiamavano ‘fascisti’?


No, c’erano anche fascisti tra di loro.



E si riunivano in qualche associazione?


Si, c’era un posto dove si riunivano, la ‘casa d’Italia’, un’associazione dove si ballava, ma io non mi volli iscrivere. Quando ero in Italia ero fascista, perché se non eri fascista non facevi nessun lavoro, non potevi fare niente. Ma quando arrivai in Canada dissi: no, fascista non voglio essere! In Italia era necessario, qui dove posso avere le mie idee non ne voglio sapere. E fui fortunato: quando Mussolini dichiarò guerra all’Inghilterra, ed il Canada faceva parte dell’Inghilterra, la Polizia andò la notte stessa nella sede dell’associazione, prese i registri ed arrestò tutti i soci. Meno male che non mi iscrissi, perché nessuno pensava alla guerra..



… tu non ti iscrivesti perché non ti volevi iscrivere?

Si, dissi qui non voglio essere fascista: voglio essere libero, e non mi iscrissi. Ma non pensavo che doveva venire la guerra, come non lo pensava nessun’altro.



E poi perché hai deciso di tornare in Italia? Stavi facendo tanta fortuna…


Perché quello che avevamo fatto mi bastava, il modo di vivere in Canada non mi piaceva. E poi pensai che quando i figli sarebbero diventati grandi, in Italia non sarebbero più voluti venire. Tutti quelli che nascono lì non vogliono più tornare in Italia. Avevo due figli e decisi di tornare subito, quando ancora erano piccoli, 5 e 3 anni.



Quando sei tornato in Italia poi c’era tensione sociale, soprattutto nelle campagne. Ti sei mai pentito di esser tornato?


No, no, mai. Non mi sono mai trovato in queste faccende. Portavo a lavorare sempre persone di fiducia. Non tutte le persone sono cattive sulla terra…



Hai trovato molto diversa Corato al tuo ritorno? Si stava meglio?


Tutto era diverso: si stava meglio, si guadagnava di più. Però l’Italia è rimasta sempre povera.



Ma di che cosa ti stupisti quando tornasti?


Gente che mangiava pane soltanto, o anche gente che non aveva neanche quello. Quello non era cambiato; adesso si sta molto meglio.



Ultima domanda: adesso hai 94 anni, c’è qualcosa di cui ti sei pentito o sei soddisfatto di tutto?


Sono rimasto contento di tutto. Ho sempre lavorato, sempre preso iniziative. E l’ho fatto fino ad adesso.



Grazie


Prego


29/12/06

martedì 2 novembre 2010

Il Tea Party, la Vandea repubblicana che minaccia Obama. Intervista a Mattia Diletti

Oggi si svolgeranno le elezioni di mid term negli Stati Uniti. A soli due anni dal trionfo di Barack Obama il protagonista assoluto di questa campagna elettorale è stato proprio l’avversario numero uno del Presidente americano: il Tea Party. Di questo fenomeno in Italia ne parlano da mesi tutti i giornali. Si tratta di un movimento politico sorto dal basso su posizione a destra nel Partito repubblicano. Il nome fa riferimento al Boston Tea Party (ricevimento del Te di Boston), un atto di protesta messo in atto dai coloni americani contro il governo britannico a causa della iniqua politica sulla tassazione da questo operata sul commercio del Te. La polemica anti-statale ed il fondamentalismo religioso sono i capisaldi del moderno Tea Party. Per chiarirci le idee su questo fenomeno abbiamo intervistato Mattia Diletti, ricercatore presso l’Università di Teramo e l’ Osservatorio Geopolitico sulle Elite Contemporanee, nonché co-autore del blog America 2012.


Come è nato il fenomeno del Tea Party e su quali rivendicazioni?
Il Tea Party è un fenomeno carsico, nel senso che ci sono sempre delle periferie politiche che riemergono sempre ciclicamente nei periodi di crisi della storia americana ed il Tea Party è uno di questi. I temi che tratta sono temi antichi: il governo minimo, poche tasse, riduzione dell’intervento pubblico e del governo federale con l’aggiunta di venature ideologiche che hanno a che fare col nativismo; poi c’è un richiamo ai valori della vera America e dei veri americani ed in questo caso la polemica è nei confronti dell’immigrazione ispanica. Negli anni ’60 nel Partito repubblicano è accaduto qualcosa di simile quando c’era una schiacciante maggioranza democratica al Congresso e Lyndon Johnson aveva stravinto le elezioni presidenziali del ’64 e nel Partito repubblicano ci fu una specie di guerra civile che era cavalcata dal candidato presidenziale di allora che era Barry Goldwater. Lui perse sonoramente le elezioni del ’64 ma gettò le basi perché si affermasse una cultura molto simile a quella del Tea Party nel Partito repubblicano che prima era un partito molto più moderato. Sono vecchi temi che riemergono ed in questa occasione tutta l’opposizione politica e sociale che non si era manifestata durante la campagna del 2008 perché si era effettivamente chiuso il ciclo del bushismo è riemersa nel 2009, ed ovviamente a facilitarne l’emersione è stata la crisi. Tanto più questa amministrazione non sembra risolvere determinati problemi, tanto più era facile uscire fuori e raccontare un’altra America facendo leva sul malcontento popolare che c’era.

Quindi non ci sono novità nel Tea Party rispetto alla storia della destra americana?

No. È una storia che ciclicamente si ripete, ovviamente la storia non si ripete mai uguale. È frutto della crisi, nel senso che anche quella di Obama è stata una vittoria frutto della crisi perché c’era una crisi politica ed economica ed anche Obama ha proposto un’altra idea dell’America a partire dai fondamenti. Anche Obama fa riferimento ai padri fondatori dicendo che il sogno americano deve essere più inclusivo, deve dare la possibilità a tutti di potersi esprimere, per questo serve più occupazione, maggiore sicurezza sociale e quindi la riforma sanitaria. Lo stesso avviene con il Tea Party: anch’essi prendono le parole dei padri fondatori, della Costituzione ma li declinano a destra. In questo momento di crisi si va ai fondamenti, alle radici: lo hanno fatto i democratici nel ’08 ed è sembrato molto persuasivo perché era finito un ciclo politico (il fallimento delle guerre in Iraq e Afghanistan, la crisi etc.) e lo stesso sembra accedere adesso. Soprattutto poi questo Tea Party è servito a rinserrare le fila ad un movimento conservatore che è stato forte in questo trentennio. Le novità rispetto a qualche anno fa è che c’è meno Dio e più governo minimo, meno intransigenza religiosa e più opposizione al governo federale.

Obama ha delle responsabilità nella crescita di questo fenomeno?

In parte si ed in parte no. Prima o poi un contro-movimento doveva rinascere, era impensabile che i repubblicani stessero fermi quattro anni. È difficile dire quanto queste cose nascano spontaneamente o quanto possano essere tra virgolette ‘pilotate’. È evidente che il Tea Party non è un movimento al singolare, è un movimento al plurale: si sono formati gruppi tra di loro più o meno omogenei che si sono riconosciuti, hanno deciso di darsi una piattaforma comune, hanno trovato anche persone capaci di dargli un linguaggio comune ed anche dei finanziatori comuni. Il Tea Party però è nato prima di trovare i finanziatori, ha anche una certa autonomia rispetto a questi personaggi che da sempre finanziano i movimenti conservatori e che ne hanno capito la portata. Prima o poi sarebbe accaduto anche perché c’era da aspettarselo (e questo è un tema che è sottotraccia ma c’è…) che i bianchi si sarebbero ribellati ad un Presidente nero. È vero che nel Tea Party non sembra essere il colore della pelle il tratto fondamentale però è più facile prendersela con un Presidente che sembra un parvenue. Era più facile per Roosvelt che era un patrizio bianco imporre una cultura diversa negli anni della crisi e del New Deal all’elettorato bianco che non ad uno come Obama oggi. Tutti i commentatori dicono che avrebbe dovuto cominciare dal lavoro e continuare in quella direzione: adesso a posteriori è facile dirlo ma dicono tutti che non doveva cominciare dalla battaglia sulla riforma sanitaria, perché poi è da lì che è cominciato il Tea Party: ‘è arrivato il socialista che vuole espandere il governo federale e controllare le nostre vite attraverso il governo federale’. Piuttosto che occuparsi di quello doveva occuparsi soprattutto del lavoro perché quella è la sua base elettorale: se gli ispanici, una grossa fetta di voto per Obama del ’08, perdono il lavoro è probabile che siano loro e le loro basi sindacali quelli più freddi nei confronti di Obama. Lo stesso è accaduto con i giovani.

All’interno della destra americana le posizioni del Tea Party sono maggioritarie? Come è stato recepito questo fenomeno all’interno del Partito repubblicano?

Questo è ancora difficile da capire; si saprà dopo le elezioni quando si vedrà quanti candidati del Tea Party saranno riusciti ad entrare in parlamento e si capirà anche che tipo di battaglia comincerà. Questo è sempre un gioco un po’ pericoloso: da una parte c’è una classe dirigente del Partito Repubblicano, un’elite del Partito che da una parte vuole cavalcare l’onda perché ha capito che è forte e dall’altra non vuole farsi sommergere. Sicuramente ci sarà una lotta feroce perché in previsione del 2012 per una parte del Partito Repubblicano un candidato alla Sarah Palin è completamente inaccettabile. È una battaglia in divenire però è chiaro che le tensioni sono forti, ora sono tutti uniti per l’obiettivo elettorale però laddove alcuni candidati forti repubblicani sono stati battuti alle primarie da alcuni rappresentanti del Tea Party si sono presentati come indipendenti (come in Florida e in Alaska). Una delle cose che ritorna sempre nel dibattito politico americano è la possibilità di un terzo partito: ex repubblicani alla Bloomberg, uno come Schwartzneger, altri in giro per l’America che decidono che quello è un partito troppo estremista e bisogna disinnescarlo con la nascita di un terzo partito che si presenta alle elezioni. È uno scenario futuribile ma in America se ne parla.

Quindi ritieni possibile che il Tea Party possa diventare maggioritario nel Partito Repubblicano ed estrometterne la parte moderata?

I partiti americani sono una cosa strana, non si può dire che ci sono le maggioranze e le minoranze, non fanno mai un congresso.

Però se si dovesse verificare la vittoria alle primarie di Sarah Palin difficilmente potrebbero sostenerla alle elezioni presidenziali.

Secondo me si. Ed infatti a mio parere Obama, anche se dovessero andare malissimo le elezioni non ha troppo da perdere. Il paese sì, nel senso che probabilmente resta bloccato per due anni, ma lui avrà probabilmente delle figure emerse da queste elezioni di medio termine finalmente da biasimare; avrà dei nemici contro i quali opporsi il che fa sempre comodo anche per galvanizzare la propria base. E poi è possibile che questo Partito Repubblicano non arrivi compatto così com’è al 2012. Estromettere è difficile, ma se continuasse l’onda potrebbe essere un’onda che porta fino alle elezioni 2012. Obama ora ha due possibilità: o fare come Clinton e cercare un accordo con i repubblicani su alcuni temi sui quali ci può essere un incontro (anche se non si capisce quali sono) e l’altro è fare due anni di campagna elettorale e governare con i mezzi che ha il Presidente e che comunque esistono. Di certo non ti permettono di fare le grandi riforme però il Presidente ha più di uno strumento per intervenire nella politica del day by day. Potrebbe tornare centrale la politica estera; è una cosa tipica che accade: quando il Presidente non ha strumenti di trasformazione della politica interna si muove sulla politica estera, ma con la crisi che c’è mi sembra complicato come passaggio. In questo momento l’America guarda dentro se stessa. Una cosa da mettere a fuoco che secondo me è molto interessante in questo momento è che mai come oggi l’Occidente si è avvicinato perché in America c’è lo stesso problema che si vive in Europa, cioè c’è una classe media arrabbiatissima perché sta effettivamente perdendo potere d’acquisto e prestigio sociale. Noi abbiamo delle classi medie che si impoveriscono da una parte e dall’altra dell’Atlantico e in molti casi abbiamo reazioni scomposte, arrabbiate e che guardano a destra. Il Tea Party è una declinazione di questo sentimento. Nel 2008 Obama è riuscito in qualche modo a convincere che c’era un’altra possibilità di cambiamento per un altro pezzo di classe media americana che aveva creduto al Partito Democratico, quelli che avevano già sofferto nel periodo precedente dell’amministrazione Bush che stavano cominciando a soffrire la crisi economica. È molto difficile per gli americani cominciare a pensare che possano avere una casa un po’ più piccola, consumare un po’ meno benzina. Questa è una cosa veramente complicata da trattare nella politica americana: il non essere più il numero uno, con il miglior stile di vita nel mondo e vedere gli altri che invece sembrano pieni di fiducia e di forza come accade in Cina e in India, ovviamente anche lì ci saranno prima o poi delle crisi di crescita, economica, etc. o nello stesso Brasile guardando a Sud. Questa è una cosa che politicamente si traduce in una rabbia permanente alla quale la politica non sa dare risposta. L’America ha anche delle difficoltà da un punto di vista istituzionale a rispondere in fretta a certi problemi.

Hai parlato del Tea Party come di un “fenomeno carsico”. Quali sono la struttura e l’organizzazione del Tea Party?

Sostanzialmente sono gruppi di cittadini che si incontrano, si mettono insieme e dicono “noi siamo il Tea Party di questa città…”, costituiscono delle convention, si legano in alcuni casi chi più chi meno al candidato locale in queste elezioni.

Quindi non c’è un’organizzazione verticale?

Assolutamente no. A un certo punto si crea una capacità di uniformare il linguaggio, gli obiettivi e ciò dipende da chi meglio sa agire come piattaforma per tutti quanti. Il centro sono stati quei soggetti che meglio di tutti hanno saputo creare per primi la piattaforma di cui tutti possono usufruire. È quasi un riconoscimento sul campo, non c’è mai stata una convention nazionale del Tea Party, c’è stata una grande manifestazione che è diventata la manifestazione del Tea Party (quella organizzata da Glenn Beck ed in cui è apparsa anche Sarah Palin) a cui molti Tea Party hanno partecipato, ma non c’è una struttura vera e propria. Come spesso capita per questi gruppi americani sono a cavallo tra il formale e l’informale. Dopodiché puoi trovare in questo network alcuni nodi che sono determinanti e fondamentali per la buona riuscita del movimento e della sua nazionalizzazione.

Abbiamo letto da molti giornali italiani che Berlusconi sembra essersi interessato al fenomeno del Tea Party e voglia esportalo in Italia. Ancora una volta però: quale sarebbe la novità rispetto al centro-destra che durante gli anni del governo Prodi ha costruito il suo ritorno al potere proprio sulla polemica contro l’inasprimento della pressione fiscale (e non a caso ora che sono tornati al governo tagliano ovunque la spesa sociale) e con un forte riferimento religioso (basti pensare alle vicende legate alla legge 40, al caso Englaro ed alle unioni civili)?

È evidente che ci sono alcune basi culturali che possono divenire comuni tra una parte e l’altra dell’Atlantico, dopodiché del Tea Party ne ha parlato anche FareFuturo ed io ho sentito pronunciare un riferimento al metodo, ovviamente non abbracciando la piattaforma, da parte di alcuni esponenti del Pd. Cos’è che affascina? Il fatto che ci sia una spontaneità popolare che viene messa in moto sulla base di una piattaforma politica che ha degli obiettivi di breve periodo ma al tempo stesso è culturalmente forte, connotata. La realtà è che quello che interessa più a Berlusconi è trovare uno strumento che sia sufficientemente flessibile e agile da non doverlo legare alla vita del partito. Il Pd ed il Pdl sono partiti in cui c’è un livello di conflittualità molto alto. Il Tea Party diventerebbe una sorta di movimento del Presidente con una piattaforma politica ben definita. Però mi sembra un’operazione molto complicata. Quella non è una roba che ci si inventa da un momento all’altro: negli Stati Uniti il Tea Party esce in questa forma perché c’è una tradizione (tanto democratica che repubblicana) di far nascere i movimenti e i gruppi in questo modo. In Europa non sono quella cosa lì; potrebbe essere un’arma in più in una campagna elettorale in cui ci sono dei gruppi di elettori, fans del candidato presidente ma, se uno vuole fare l’accademico, nel giudicare questa organizzazione non ci sarebbe mai nulla di paragonabile a quello che accade in America. Il Tea Party è veramente una cosa americana anche se l’agenda può essere simile a quella di alcuni partiti europei.

Per concludere: ritieni che il Tea Party sia un fenomeno politico passeggero o un modello vincente ed un domani potremmo pentirci di averlo sottovalutato?

Ormai non lo sottovaluta nessuno. È comunque un movimento forte, al’inizio è stato molto sottovalutato e anche deriso, spesso è stato deriso dalla grande stampa e dalla stampa liberal etc. e questa è stata una cosa sbagliata perché li ha ovviamente compattati. In questo modo i gruppi del Tea Party sono riconosciuti come quelli trattati male dalla solita stampa liberal; è un meccanismo che funziona spessissimo nel sistema politico americano. Tutto dipenderà da come saranno gestiti questi due anni. Non me la sento di fare una previsione: si tratta di un paese che potrebbe continuare ad andare male chiunque governi. Con un Congresso repubblicano e un Presidente democratico può esserci sia un effetto di ulteriore galvanizzazione per cui si aspetta il count down del 2012 per vedere chi conta di più e chi è più forte, oppure potrebbe esserci anche un raffreddarsi di questo movimento. I trent’anni precedenti ci dicono che i gruppi dirigenti del partito repubblicano sono stati molto bravi a dare una sponda a questi gruppi, a blandirli e ad allearcisi: è quello che è successo con la presidenza Reagan e con la presidenza Bush. Questa sarebbe un’ulteriore spinta a destra e forse se ci fosse veramente una frattura molto forte nel partito repubblicano le elezioni del 2012 sarebbero compromesse; quindi è tutto da vedere se questa ulteriore radicalizzazione rischia di far deragliare il Partito Repubblicano o se ci sarà qualcuno sufficientemente abile a tenere insieme le diverse anime e rendere il candidato presidente nel 2012 un candidato credibile. Sul lunghissimo periodo il coltello dalla parte del manico ce l’hanno però i democratici, nel senso che la base del Tea Party è prevalentemente di maschi, di una certa età, bianchi: da un punto di vista demografico la maggioranza che si sta restringendo. I giovani e le minoranze che sono in crescita da un punto di vista demografico sono quelli che votano maggiormente per il Partito Democratico. Se il Partito Democratico è politicamente in grado di mantenere un’alleanza con questi gruppi isolati da una posizione di governo come quella della Presidenza ed anche in futuro di costruire un’alleanza con essi, in realtà non hanno molto da temere. Però questa crisi sta mettendo alla prova proprio questi legami; anche i sindacati che sono grandi sostenitori del Partito Democratico sono piuttosto disillusi ed hanno conosciuto una crisi che si avverte ancora molto forte in questo momento, quindi la partita è aperta e la variabile che incide più di tutte sul consenso e sulla riuscita politica di queste organizzazioni è la crisi. E la crisi economica è talmente seria, sta talmente cambiando la faccia degli Stati Uniti, che è difficile fare delle previsioni.

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da Linkredulo di Martedì 02 Novembre 2010- http://www.linkredulo.it/esteri/1555-qil-tea-party-un-fenomeno-da-non-sottovalutareq-mattia-diletti-ci-racconta-lavversario-numero-uno-di-obama.html

martedì 12 ottobre 2010

Luiz Inácio Lula da Silva: l'utopia possibile dell'Uguaglianza

Domenica prossima il Brasile sceglierà il suo futuro Presidente. In lizza per il ballottaggio ci sono Dilma Rousseff, esponente del Partito dei Lavoratori e sostenuta dal Presidente uscente Luiz Inácio da Silva detto Lula contro Josè Serra del Partito della Social Democrazia Brasiliana. I sondaggi danno favorita Dilma, soprattutto in virtù della popolarità e dei successi del Presidente uscente. La stampa italiana sta dedicando in questi giorni ampio spazio all'esperienza politica di Lula ed ai cambiamenti che il Brasile ha vissuto nei suoi otto anni di governo. Senza alcuna competenza di natura economica ma con la curiosità di un osservatore europeo progressista, quindi disilluso, ho cercato alcune informazioni su questo ex-sindacalista divenuto popolarissimo Presidente del Brasile, alla guida di un grande processo di emancipazione del suo popolo che da questa parte dell'Atlantico sembra incomprensibile.


POLITICA ESTERA

L'accresciuta stabilità politica ed economica associata alla forte leadership di Lula ha permesso al Brasile di affacciarsi sulla scena internazione con grande autonomina ed autorevolezza. Come ha evidenziato Federico Rampini la lontananza dalle posizioni più estreme presenti nel continente sudamericano (Cuba e Venezuela in testa) gli permette di mettersi alla guida del processo di integrazione dell'America Latina. Inoltre ha coraggiosamente avviato un dialogo con l'Iran, marcando ancora più chiaramente la propria autonomia dagli USA che poco hanno gradito l'iniziativa.


REDISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA

Maurizio Matteucci ha significativamente intitolato un editoriale su il manifesto Il presidente che ha aperto il Brasile ai brasiliani. Si tratta dell'aspetto più evidente di quella che Lula stesso ha definito "una rivoluzione". Al momento della sua elezione aveva proclamato suo obiettivo quello di garantire a tutti i brasiliani 3 pasti al giorno, cosa che appariva impossibile in un paese in cui il divario nella distribuzione della ricchezza era elevatissimo. Come raccontato da Francesca Bastagli, con il lancio della Bolsa familia nel 2003 Lula ha sostituito i 5 diversi sussidi presenti in precedenza (4 istituiti dal precedente governo ed uno dallo stesso Lula) con un unico sussidio che ha permesso interventi più estesi e mirati: dal 2001 al 2009 si è passati da 5 milioni di famiglie beneficiarie a 12,1 milioni (il 26% della popolazione). La Bolsa familia è assegnata a tutti i soggetti che versano sotto il livello di povertà, con una componente aggiuntiva per le famiglie con figli in età da 0 a 6 anni che necessitano frequenti visite mediche o in età scolare.
L' effetto di queste politiche insieme alla crescita economica del paese si traduce in una drastica riduzione della diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza, in un aumento della regolarità delle visite mediche e della frequenza scolastica (benché la qualità della pubblica istruzione resti ancora bassa).

STATO-MERCATO

Come evidenziato da Matteucci su Lula si erano concentrate le aspettative di una rottura con il neo-liberismo egemone in tutto l'Occidente al momento della sua elezione. La realtà è che questa rottura non è avvenuta, si è però disegnato un riequilibrio tra lo Stato ed il Mercato. Un'analisi dettagliata di questo aspetto è svolta da Andrea Goldstein su LaVoce.info. Lula ha da subito adottato politiche di sostegno all'innovazione attraverso la Política Industrial, Tecnológica e de Comércio Exterior del 2004, la Lei do Bem del 2005 e la Política de Desenvolvimento Produtivo (Pdp) del 2008 mettendo in atto incentivi fiscali per imprese ed istituzioni disposte ad investire sull'innovazione tecnologica. Rappresentativo degli investimenti che lo Stato ha riversato nelle imprese è il monte dei prestiti elargiti dal Banco Nacional de Desenvolvimento Econômico e Social (Bndes), cresciuto di sette volte durante la presidenza Lula.
L'investimento sull'innovazione tecnologica ha permesso alla compagnia petrolifera Petrobas, di cui lo Stato brasiliano e la Bnds detengono il 40% delle azioni, di diventare uno dei colossi mondiali per le estrazioni petrolifere. Altre aziende pubbliche sono state oggetto di politiche di ricapitalizzazione, restituendo generosi dividendi in poco tempo: fenomeno che smentisce ampiamente la vulgata da noi ancora egemone di un settore pubblico necessariamente in deficit.
Federico Rampini evidenzia anche come Lula sia riuscito a realizzare importanti infrastrutture per il paese: dighe per le centrali termoelettriche e l'alta velocità; affermazione parzialmente in contraddizione con quanto sostenuto da Goldstein secondo il quale è in atto nel paese un dibattito sulla priorità di investire per accrescere le esportazioni o colmare il deficit infrastrutturale.

CONTI PUBBLICI E CRISI ECONOMICA

Il riordino dei conti pubblici solitamente appassiona poco le masse ed in Europa siamo abituati a pensare la sua attuazione in alternativa all'aumento della spesa sociale ed alle misure contro la povertà. Ha quindi del sorprendente scoprire che lo stesso Brasile della Bolsa familia, delle imprese pubbliche che sono dei colossi, di milioni di persone strappate alla povertà, è un paese con i conti pubblici in ordine che ha saputo reggere benissimo l'impatto della crisi economica. Lo evidenzia in un articolo su LaVoce.info Giorgio Trebeschi. In continuità con le misure contro l'inflazione adottate dai social-democratici negli anno '90 Lula è riuscito a ridurre il debito pubblico e contenere l'inflazione. La credibilità della banca centrale e gli alti livelli di vigilanza da questa esercitati sul sistema bancario hanno permesso al paese di affrontare la crisi economica attuando misure anti-cicliche, concedendo agevolazioni fiscali per l'acquisto di beni di consumo durevoli sostenendo così l'economia senza dover rinnegare le politiche redistributive. Nel 2010 per il Brasile l'uscita dalla crisi è una realtà con una crescita che si attesta ad un ritmo del 7%.

NUOVA SINISTRA

La rivoluzione culturale attuata da Lula, la credibilità della sua proposta politica è quello che forse più sconcerta noi osservatori europei. La semplicità del programma dei tra pasti al giorno pronunciata durante la cerimonia di insediamento nel 2002 attirò l'attenzione di tutto il mondo. In un'intervista rilasciata pochi giorni fa Lula ha espresso la sua idea di democrazia dicendo "La democrazia per me non è una parola a metà. E' una parola intera. Ma qualcuno intende per democrazia solo il diritto del popolo a gridare che ha fame e io intendo la democrazia come il diritto di mangiare. Questa è la differenza fondamentale." Un concetto chiaro, diretto, in continuità con quello espresso nel 2002, ma rafforzato dai successi della sua esperienza al governo del paese. Lula ha cioè posto al centro di un'azione politica riformatrice il tema dei diritti sociali come necessario completamento dei diritti civili, restituendo alla parola uguaglianza la dignità ed il fascino che da noi sono stati sepolti sotto le macerie del muro di Berlino e degli sciagurati esperimenti del Socialismo reale.
Spesso è stato oggetto di attacchi da parte della stampa che per screditarlo gli dava del marxista. Lui non ha mai rinnegato la sua esperienza di sindacalista, nè l'urgenza di attuare politiche redistributive, di agire autonomamente dal Fmi e far intervenire lo Stato nell'economia. Nella stessa intervista in cui ha espresso il suo concetto di democrazia ci tiene però a chiarire come le etichette non gli siano mai piaciute e che quando nel sindacato, soprattutto in seguito a prese di posizione non ortodosse, qualcuno gli chiedeva se fosse comunista lui rispondeva "no, sono un tornitore meccanico".
Luca Telese, in un bel post sul suo blog, riferisce che tra i suoi modelli politici Lula ha sempre riservato un posto speciale al Pci di Enrico Berlinguer, circostanza che dovrebbe indurre non pochi a riconsiderare il bilancio un po' troppo sbrigativo fatto sulla storia del comunismo italiano novecentesco.

FONTI:

1) LA POLITICA SOCIALE BRASILIANA di Francesco Bastagli - Lavoce.info - 28.09.2010
2) LA POLITICA INDUSTRIALE BRASILIANA di Andrea Goldstein - Lavoce.info - 28.09.2010
3) L'EREDITÀ DI LULA: LA POLITICA ECONOMICA di Giorgio Trebeschi - Lavoce.info - 28.09.2010
4) LULA: «ABBIAMO FATTO UNA RIVOLUZIONE» - Intervista rilasciata a Carta Maior e pubblicata su il Manifesto - 3/10/10
5) IL PRESIDENTE CHE HA APERTO IL BRASILE AI BRASILIANI di Maurizio Matteuzzi - il Manifesto - 3/10/10
6) IL BRASILE DI DILMA FA PAURA AGLI STATI UNITI di Federico Rampini - Blog Estremo Occidente su Repubblica.it - 4/10/10
7) LULA, IL BRASILE (E IO) di Luca Telese - blog dell'autore su Il Fatto Quotidiano - 11/10/10

da LINKREDULO di Mercoledì 13/10/10 - http://www.linkredulo.it/esteri/1496-luiz-inacio-lula-da-silva-lutopia-possibile-delluguaglianza.html

mercoledì 6 ottobre 2010

Spiritualità e marketing: l’idea di scuola pubblica della provincia Bat

da LINKREDULO di Mercoledì 06 Ottobre 2010 - http://www.linkredulo.it/scuola-e-universita/1470-spiritualita-e-marketing-lidea-di-scuola-pubblica-della-provincia-bat.html

Il Corriere del Mezzogiorno riporta oggi (6/10/10) la notizia di un ordine del giorno approvato all’unanimità dal Consiglio Provinciale della Bat che, rivolto ai Presidenti di Camera e Senato, esorta l’esposizione del crocifisso negli edifici scolastici. A proporre l’odg è stato il consigliere d’opposizione De Deo (Udc), ma a farlo proprio è stato l’intero consiglio provinciale. Nell’odg si fa riferimento alle radici giudaico-cristiane come “parte integrante dello stato italiano” ed al crocifisso come simbolo che “incarna tutti i valori sociologici, umani, storici e culturali”.

Questa iniziativa però non è la sola che la provincia Bat ha preso in materia di pubblica istruzione. Nelle settimane scorse infatti su iniziativa dell’assessore competente Pompeo Camero, per far fronte ai tagli del ministro Gelmini, la Provincia ha emanato un bando che permette ai privati di contribuire alle spese per l’acquisto dell’arredo scolastico in cambio dell’esposizione sullo stesso di messaggi pubblicitari.

Nel Consiglio provinciale della Bat il centro-destra dispone di un’ampia maggioranza (18/30), ed il centro-sinistra, uscito malconcio dalle urne, può contare su una rappresentanza di 6 consiglieri (5 Pd ed uno della Federazione della Sinistra).

Il binomio è emblematico dello stato di salute dell’istruzione pubblica: da un lato elevata retoricamente a luogo in cui tramandare le tradizioni e le radici, in cui apporre simboli celebrativi della storia di un popolo, di una cultura (o addirittura di un partito) e dall’altro degradato a ente su cui non sprecare un centesimo, anzi da svendere al miglior offerente come se si trattasse di uno spazio pubblicitario qualunque.

Val la pena ricordare che l’ente provincia ha, tra le poche deleghe di sua competenza ed i pochi capitoli di spesa, quello sull’edilizia scolastica. Suona quindi ancora più grottesco questo atto di svendita in quanto messo in opera proprio dall’ente deputato ad investire sulla scuola.

In questo mix di spiritualità e marketing che indurrà qualcuno al riso l’unica vittima è l’istruzione pubblica come investimento collettivo sul futuro, sulla crescita cultura, civile e morale delle giovani generazioni, indipendentemente dalle loro disponibilità economiche, dal loro credo religioso o dalla loro provenienza geografica. Su questo fronte il centro-sinistra farebbe bene a marcare la più netta differenza, cosa che ha fatto con forza sulle iniziative degli sponsor ma tristemente è mancata su quella del crocifisso.

mercoledì 29 settembre 2010

Contro il mito pigro e autoassolutorio dell'eroe

da LINKREDULO di Martedì 28 Settembre 2010 - http://www.linkredulo.it/opinioni/1445-contro-il-mito-pigro-e-autoassolutorio-delleroe.html

Da circa un paio d’anni la figura dell’eroe è frequentemente evocata dal mondo politico. A cominciare è stato Marcello Dell’Utri che nel pieno della campagna elettorale del 2008, in maniera grottesca, definì Vittorio Mangano un eroe. Da allora il mondo politico non ha mai smesso di rimpallarsi una continua rivendicazione su quelli che sono i “veri eroi”: cominciò Veltroni in chiusura della campagna elettorale da Piazza del Popolo, citando tra i suoi veri eroi Peppino Impastato, hanno perseverato Berlusconi e Dell’Utri con Mangano, poi i finiani con Saviano contrapposto proprio allo stalliere di Arcore, Vendola con Falcone, Borsellino e Carlo Giuliani ed infine Bersani con Falcone, Borsellino ed Angelo Vassallo.

Il fatto che la casella “eroe” sia stata rilanciata in ambito berlusconiano per un condannato per mafia avrebbe dovuto imporre a chi voleva prendere le distanze da questa beatificazione quantomeno il beneficio del dubbio sulla validità di riempirla in modi diversi. Invece no: tutti hanno pensato che la risposta migliore fosse prestarsi a questo continuo rimpallo in cui i nomi chiamati in causa vengono trattati come figurine panini ed esposte ad un logorio d’immagine pari a quello di un qualunque prodotto di marketing.

In questi tempi contraddistinti da un fatalismo che fa apparire il futuro già scritto, o quantomeno al di fuori della portata dei più, e da un individualismo che da marcia gloriosa del self made man si è trasformato nella solitudine di tanti sconfitti, non c’è da stupirsi che l’idea di umanità sottesa alla figura dell’eroe sia stata recepita con tanta facilità: l’eroe è infatti qualcosa d’altro da noi, fa quel che fa proprio perché è irrimediabilmente diverso dal resto dell’umanità. Se si oppone alla mafia e muore ucciso da essa ad esempio non lo fa per virtù civiche e senso di responsabilità (valori coltivabili e perseguibili da tutti), ma perché ha dentro di sé, in quel fondo imperscrutabile, un qualcosa che lo spinge a farlo. Un qualcosa che nessuno può sforzarsi di coltivare per rendersi migliore: se ce l’hai te lo tieni e vai incontro al tuo eroico martirio senza lamentarti; se non ce l’hai pazienza, sei un uomo come tutti gli altri.

La trasformazione di semplici uomini e di semplici donne in eroi è utile a lasciare il resto dell’umanità quieta nei propri affari quotidiani, lontana dal pensiero che il loro esempio potrebbe un giorno diventare la normalità in una società diversa e meno rassegnata. Elevarli al rango di eroi ci sottrae ad un confronto con loro: ci priva di un termine di paragone davanti al quale le nostre paure, l
e nostre meschinità impallidirebbero mostrandosi per quello che sono: non limiti e difetti intrascendibili connaturati all’umanità, ma qualcosa di superabile che se non riusciamo a sconfiggere è solo per responsabilità nostra.

Vittorio Mangano e Peppino Impastato (rispettivamente il peggio e il meglio della storia d’Italia) non sono eroi ma uomini come noi: con le loro paure, le loro ambizioni e la libertà di scegliere quale strada percorrere. Proprio come noi che possiamo scegliere di degradarci al livello dello stalliere, elevarci al livello del giovane che muore perché sogna una Sicilia senza mafia o guardare entrambi nelle diverse forme che l’indifferenza ci offre, alleandoci così tacitamente con il più forte ed il più arrogante dei due.

Per ricordare che ci sono storie nelle quali riconoscersi non è necessario trasformare il ricordo in una forma di laica beatificazione; anzi tale metamorfosi è il modo migliore per annichilire e mistificare l’opera di chi quelle storie le ha incarnate, condannando le sue idee ed il suo coraggio ad una solitudine postuma, ancor più dolorosa di quella che ha contraddistinto la sua esistenza terrena perché ha il sapore di un’eterna incomprensione.

mercoledì 15 settembre 2010

A Norman Zarcone, parresiaste di questi tempi bui

“Compare, la libertà di pensare è anche la libertà di morire”

Norman Zarcone era un dottorando in Filosofia presso l’Università degli Studi di Palermo. Si era laureato con 110 e lode con una tesi in Filosofia del Linguaggio e dopo la laurea aveva partecipato al concorso di dottorato. Era risultato, dopo alcune rinunce, tra i cosiddetti “vincitori senza borsa”, cioè poteva svolgere il suo lavoro di ricerca e vederselo riconosciuto legalmente dall’Università senza però ricevere durante i tre anni di lavoro alcuna forma di retribuzione. Accettare questo tipo di collaborazione con l’Università significa svolgere sacrifici per tre anni, rinunciando dopo la laurea ad avere una vera e propria indipendenza, con la prospettiva di una carriera accademica. Prospettiva che in realtà in questi tempi di tagli all’Università ed alla ricerca non c’è.

Lunedì Norman si è tolto la vita perché si era reso conto che quei sacrifici non sarebbero serviti a niente e che alla fine di quel triennio l’Università gli avrebbe dato il benservito. Norman, come tutti noi, faceva parte di una generazione alla quale è stata venduta in astratto la flessibilità del mercato del lavoro come una grande opportunità per dimostrare le proprie capacità. Da più di dieci anni ci sentiamo ripetere la litania che precarizzare il mercato del lavoro ed adeguare ogni settore della vita civile alle leggi del mercato significa realizzare più mobilità e più meritocrazia. Molti di noi ci hanno creduto e molti di noi ci credono ancora, accettando condizioni di palese sfruttamento illudendosi che sia una situazione solo temporanea, che lo stanno facendo per dimostrare il proprio valore e che arriverà il momento che qualcuno lo riconoscerà.

Norman no. Lui ha capito tragicamente che alla fine di quel triennio si chiudeva una porta e non si apriva più niente, che quella condizione alla quale i nostri tempi lo avevano costretto non era passeggera, che avrebbe potuto continuare ad accumulare competenze ma che questo non gli sarebbe servito a conquistarsi la possibilità di essere padrone della sua vita. Ha capito tutto questo, non ha fatto niente per nasconderselo e si è sentito perso.

Il gesto di Norman ci ha svelato la falsità di quella litania sulla flessibilità e la verità sulla condizione di chi è costretto a subirne gli effetti. Norman ci ha parlato di questi tempi bui molto meglio di quanto possano farlo migliaia di libri, inchieste giornalistiche e talk show. Lo ha fatto in una maniera inequivocabile.

A noi, suoi coetanei, spetta raccogliere il suo grido non permettendo che si perda nel vuoto della collettiva indifferenza.



da LINKREDULO di Mercoledì 15 Settembre - http://www.linkredulo.it/scuola-e-universita/1419-a-norman-zarcone-parresiaste-di-questi-tempi-bui.html

venerdì 10 settembre 2010

2001-2010: metamorfosi del berlusconismo ed eclissi della politica

da LINKREDULO di Giovedì 09 Settembre 2010 22:44 - http://www.linkredulo.it/politica/1404-2001-2010-metamorfosi-del-berlusconismo-ed-eclissi-della-politica.html

La campagna elettorale del 2001 la ricorderò per sempre: avevo 16 anni ed era la prima a cui partecipavo attivamente. Ripensandoci oggi riesco a comprendere alcuni aspetti che all’epoca sfuggivano allo sguardo di un adolescente e facendolo mi balza agli occhi com’era diversa quella fase del berlusconismo da quella attuale.

Durante quella campagna elettorale Berlusconi riuscì a costruire un sogno ed a trasmetterlo al suo elettorato. Erano anni in cui il credo neo-liberista non incontrava resistenze e si pensava che la caduta del muro di Berlino e l’avanzata del mercato su tutto il globo terrestre avrebbero diffuso il benessere e la libertà ovunque. Si trattava insomma, almeno nella propaganda, di una forma di universalismo: un’idea di società in cui per tutti è possibile essere felici. A fianco di questa metamorfosi geopolitica era egemone in Occidente un individualismo che celebrava il successo del singolo e proprio in questa chiave declinava la felicità. Berlusconi si fece interprete di entrambi questi aspetti: il primo nella forma di disegno politico ed il secondo incarnandolo con la sua biografia (opportunamente riveduta e corretta da abili comunicatori). La fase finale della campagna elettorale coincise con il 1° Maggio ed in quell’occasione Berlusconi sostenne che avrebbe creato nuovi posti di lavoro perché facendo l’interesse delle aziende avrebbe permesso a queste di creare nuova occupazione: un’affermazione che riletta oggi, alla luce della legge 30, appare in tutta la sua assurdità ma che allora riuscì a convincere gran parte dell’opinione pubblica. In questo contesto va anche inserita la crisi della politica avviatasi nell’89 con la fine di quelle che venivano chiamate le “grandi narrazioni” ed aggravata in Italia dal discredito che sulla classe politica gettò senza appello l’inchiesta di Mani Pulite. Anche in questo Berlusconi si fece interprete dello spirito dei tempi presentandosi come l’uomo d’azienda, di successo, quello concreto ed estraneo alle pastoie ed all’inconcludenza della politica. Ricorrente nella campagna elettorale era l’espressione “governerò l’azienda Italia”.

Ponendo l’accento su questi aspetti non voglio ridimensionare l’impatto che su quella campagna elettorale (e su tutte le successive) ebbe il controllo della maggior parte dei media, ne’ gli errori del centro-sinistra. Il mio intento è considerare la vicenda berlusconiana in un più ampio contesto in cui a fianco dell’eccezione democratica, tutta italiana, c’era una regola economico-sociale uniforme in tutto l’Occidente a tal punto da spingere i governi progressisti ad adeguarvisi. Questo aspetto infatti, a mio parere, non è mai stato sufficientemente indagato ed è una delle cause, forse la principale, della mancanza di credibilità del centro-sinistra attuale e della sua incapacità di creare una prospettiva credibile di futuro. Il delirante Berlusconi degli ultimi anni, il suo ineguagliabile potere economico e mediatico e la rozzezza che lo circonda hanno infatti indotto in molti erroneamente l’idea che alla base del suo successo politico non ci sia alcun sogno, alcuna utopia attorno alla quale si è raccolto il suo consenso.

Ed oggi? Cosa è cambiato nel modo di Berlusconi di porsi sulla scena pubblica? La speranza che il suo governo avrebbe creato prospettive di vita migliori per tutti si è irrimediabilmente arenata sul crescente divario nella distribuzione della ricchezza e su una normativa in tema di mercato del lavoro che ha privato le giovani generazioni di ogni speranza. Già alla fine del mandato iniziato con quella roboante vittoria non si sentiva più Berlusconi prospettare un futuro migliore per tutti. Emblematico è il caso della scuola: nel 2001 quello di una riforma della scuola basata sulle tre i (inglese, internet, impresa) era uno dei temi su cui si basò la campagna elettorale. Quel disegno era perfettamente coerente con quanto descritto prima e si trattava di un’idea di scuola, con la quale essere o meno d’accordo. Passati gli anni la scuola si è trasformata sull’agenda berlusconiana da luogo di questa prospettata rivoluzione a settore da tagliare.

A quella prospettiva universalistica (non più credibile dopo quei 5 anni di governo) si è sostituito un altro approccio tipico dei regimi: l’accusa nei confronti dei sabotatori, divenuta anno dopo anno più frequente e trasferitasi dall’opposizione ad alcune “elitès di merda” (Brunetta dixit) come la magistratura, gli intellettuali e i giornali non compiacenti fino ad arrivare ad intere categorie sociali, in particolar modo i dipendenti pubblici. Berlusconi è passato dall’unire una cospicua parte di opinione pubblica attorno ad un sogno ad unirla attorno all’avversione per l’altra parte d’Italia. Ha trovato terreno fertile in un mai sopito sentimento anti-comunista, nell’idea, incrementata da tangentopoli, che il settore pubblico e chi vi lavora sia parassitario ed in ciò che restava del fascino del self-made man.

A fianco di una mancanza di radicalità nell’opporsi all’eversione berlusconiana, ritengo che il principale errore del centro-sinistra nel 2006 sia stato quello di non aver saputo contrapporre al declinante sogno berlusconiano un altro sogno, un’altra idea di società, smarcandosi più nettamente dal credo neo-liberista. Perdendo qualche pezzo di coalizione si sarebbe potuta condurre una campagna elettorale con un po’ più di chiarezza sui temi chiave e con un programma un po’ più coinvolgente ed entusiasmante del pur sacrosanto stato dei conti pubblici, in nome dei quali è davvero impensabile chiamare un popolo alla mobilitazione.

Nelle elezioni del 2008 abbiamo potuto vedere come il sogno berlusconiano era completamente sparito. Il fallimento dell’esperienza di governo del centro-sinistra gli ha offerto un motivo in più per condurre la campagna elettorale esclusivamente nella modalità suddetta: legittimare ed esaltare il pensiero di una parte dell’opinione pubblica di essere migliore dell’altra. La caccia ai sabotatori però si è rivelato ancora una volta l’unico rimedio per colmare il vuoto di politica: la vicenda di Fini lo testimonia. A ciò va aggiunta la crisi economica del’08, tanto epocale da indurre tutti i leaders conservatori occidentali a ripensare l’intervento dello Stato nella vita pubblica. Ciò era però incompatibile con il sogno berlusconiano e tale incompatibilità si è tradotta in un balbettio negli interventi per affrontarla o in contrasti con la politica del rigore di Tremonti.

Oggi al popolo berlusconiano ed all’opinione pubblica ancora disposta a credergli resta, rinvigorito dall’astio verso l’altra parte d’Italia, il cadavere di quel vecchio sogno che mantiene una credibilità posticcia grazie all’assenza di alternative valide e pronte al confronto; opzione a cui talvolta il centro-sinistra sembra aver purtroppo rinunciato.