mercoledì 8 giugno 2011

PRECARIO SARÀ LEI! - Autocoscienza precaria

In un libro del 1997, pubblicato in Italia nel 2008 con il titolo “Costruire la propria vita”, il sociologo Ulrich Beck parlando della povertà e della percezione che di essa se ne aveva in quegli anni scriveva: come forzare la porta del treno su cui siamo imprigionati ma sappiamo di doverlo farlo urgentemente.

“È un po’ come stare sulla metropolitana: si viaggia insieme ad altri per un paio di stazioni e poi si scende. Nel momento in cui si sale, si pensa già alla discesa, e ciascuno porta con sé il desiderio di scendere, così come il racconto della propria particolare salita. Incontrandosi, le persone provano grande imbarazzo. La nuova povertà si rintana tra le proprie quattro pareti, cercando di nascondere lo sgradevole sentore di scandalo che essa possiede.”

Questa metafora nata per la povertà credo descriva perfettamente l’autocoscienza della propria condizione professione che per un decennio circa ha accompagnato i giovani precari. Proprio nel ’97 veniva approvato in Italia il pacchetto Treu e la flessibilità faceva il suo esordio nel diritto del lavoro sostenuta e legittimata da tutto l’establishment: la flessibilità, si sosteneva, avrebbe facilitato l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e sarebbe stata una condizione temporanea, utile a saggiarne le qualità, a motivarli e spronarli al miglioramento. Da allora, e ancor di più dopo la legge 30, un’intera generazione non ha fatto altro che salire e scendere dalla metropolitana della povertà, intervallando contratti a termine con periodi di disoccupazione. La cosa che però più di tutte l’ha condannata a tale andirivieni è stato proprio il grande imbarazzo di cui parla Beck: le motivazioni pretestuose addotte per legittimare la flessibilità, in assenza di grandi oppositori e critici, sono state condivise dall’opinione pubblica tutta (anche da chi le subiva). Il meccanismo psicologico che ciò ha innescato è stato dei più perversi: 1) se la precarietà è buona, giusta e temporanea, chi non riesce ad uscirne non può prendersela che con se stesso; 2) se la condizione di precarietà è temporanea come la compagnia di un viaggio in metropolitana è legittimo negare di appartenere alla categoria dei precari contrapponendo ad essa quella della propria identità professionale in costruzione (ad es. non precari della ricerca ma aspiranti luminari/baroni).

Il bagaglio di dolore e frustrazione taciuto per un decennio sotto l’imbarazzo reciproco è stato un fiume carsico che ha distrutto una generazione. Oggi, dopo una crisi che ha svelato l’insostenibilità del modello sociale che ha prodotto la precarietà (e che l’ha difesa proprio in nome della propria sostenibilità) e dopo svariati movimenti giovanili spontanei che hanno rotto la cortina di silenzio su questi temi è davvero difficile ignorare il dramma della precarietà. Ancor più di quei due fattori però pesa l’esempio di fratelli e sorelle maggiori, cugini ed amici più grandi: conosciamo il loro valore ed abbiamo visto il loro entusiasmo sfiorire dopo gli studi giorno dopo giorno insieme alla speranza che questi tempi gli avrebbero potuto offrire qualcosa di buono.

Oggi chi frequenta le scuole e l’università sa che non l’attende niente di buono lì fuori, per chi entra nel mondo del lavoro l’imbarazzo nel guardarsi negli occhi e dirsi precari sentendosi in colpa è scomparso. Non sappiamo ancora come forzare la porta del treno su cui siamo imprigionati ma sappiamo di doverlo farlo urgentemente.

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