domenica 6 maggio 2012

Pareggio di bilancio in Costituzione: un errore storico



17 Aprile 2012: una data qualunque nella storia politica italiana a giudicare dai giornali, perfettamente inscrivibile in una fase in cui i tecnici cercano di salvare l'Italia, si discute dell'Imu, i partiti sono travolti dagli scandali e l'asta sulle frequenze televisive è la riprova di una mutato clima politico. Eppure di questa data torneremo a parlarne in futuro perché al Senato è stata approvato l'inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione. Senza un dibattito pubblico, senza che giornali, intellettuali e partiti si esprimessero e discutessero di una misura che cambia profondamente il volto dello Stato italiano. Niente di più distante dall'importanza e dalla sacralità che nella storia d'Italia ricopre l'assemblea costituente e le interminabili discussioni che ne caratterizzarono i lavori. Un dibattito che impegnava appieno dei partiti che erano ampiamente rappresentativi della società italiana e che da essa ricevevano la legittimazione convinta a scrivere le leggi del vivere civile.
Eppure il pareggio di bilancio in Costituzione ne contraddice apertamente lo spirito, registra formalmente un'inversione di tendenza nella cultura politico-economico che l'ha ispirata a partire da quell'articolo 1 che recita “L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Quelli della Costituzione erano gli anni in cui il keynesismo ricostruiva l'equilibrio sociale in un'Europa uscita distrutta dalla seconda guerra mondiale. Anni in cui l'obiettivo dello Stato era garantire la piena occupazione, facendo investimenti finanziati dal debito per garantire una crescita economica reale (non quella fantomatica che dovrebbe scaturire oggi dall'abolizione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori), i cui effetti, in virtù di un protagonismo e di una vigilanza del mondo del lavoro oggi impensabile, contribuivano a creare una classe media, a permetterle di mandare i propri figli a scuola ed all'università, a comprar casa, a far crescere i consumi. Non è un caso che dopo il boom economico venne il '68: quel modello sociale inclusivo aveva prodotto una generazione consapevole di se stessa e volenterosa di imporsi sulla scena pubblica.
Il keynesismo è entrato in crisi negli anni '70, con le crisi petrolifere che mettevano in discussione la crescita infinita dei paesi occidentali, con la sospensione degli accordi di Bretton Woods che sancivano la fine di un equilibrio geopolitico, con le crisi fiscali che cominciano a rendere meno scontato il welfare state. In questo quadro le destre occidentali si riorganizzarono e tentarono di reagire alla marginalità a cui il dopoguerra le aveva condannate e a quel '68 che metteva addirittura in discussione 'da sinistra' l'equilibrio sociale occidentale. La presidenza di Nixon negli Usa fu il laboratorio politico del futuro: se da un lato il presidente del Watergate dischiarava “siamo tutti keynesiani” dall'altro fu proprio lui a sancire la fine di Bretton Woods e a favorire un colpo di stato in Cile che permetterà di sperimentare la dottrina neoliberista al governo. Fu durante quegli anni che la crisi fiscale della città di New York venne affrontata con durissime misure di austerity che produrranno l'esclusione sociale su cui poi il sindaco Giuliani costruirà la sua fortuna elettorale. Fu durante quegli anni che la nacque la Commissione Trilaterale: un potentissimo gruppo di intellettuali e politici di cultura neo-liberista ed imprenditori provenienti da Usa, Europa e Giappone. Emblematico del mutamento di clima politico fu il fatto che dopo il repubblicano che si dichiara keynesiano (e dopo una breve parentesi di Ford) a salire alla Casa Bianca fu Jimmy Carter, un democratico organico alla Trilaterale. Dopo di lui torneranno al governo i repubblicani con Reagan e a quel punto dal laboratorio si passerà a un'egemonia effettiva della dottrina neoliberista. La piena occupazione venne derubricata dall'agenda politica, sostituita dalla lotta all'inflazione e dalla contrazione della spesa sociale.
In Italia queste novità arrivarono in ritardo; in contemporanea con questa imponente evoluzione dello scenario geopolitico da noi prevalse l'immobilismo e l'equilibrio politico che aveva partorito la Costituzione entrò in cancrena: lo Stato governato dalla Dc e dal Psi negli anni '80 continuava a indebitarsi, ma i suoi investimenti non producevano crescita, servivano soltanto a finanziare misure corporative e clientelari per frenare la fuga di voti verso il Pci. Non a caso coincidevano quasi sempre con le vigilie elettorali. La sfiducia nei confronti dello stato e l'austerithy arrivarono in Italia più tardi, ma anche molto più violentemente, in quanto figlie anche della delegittimazione di una classe politica dimostratasi interessata solo a garantire la propria sopravvivenza elettorale. Ed è così che nel giro di 5-6 anni l'Italia conobbe l'auterity, tangentopoli, la fine della prima repubblica e l'ingresso nell'euro. Non bisogna dimenticare che tutto ciò avvenne negli anni in cui il mondo conobbe il fenomeno della globalizzazione.
Il centro-sinistra italiano in questo contesto fece propria la bandiera della lotta al debito pubblico, costruendosi l'immagine della forza politica responsabile e non populista, cavalcando l'idea che liberarsene significava riconquistare sovranità. Inoltre adottare misure di austerithy significava ricollegare l'Italia al grande progetto di un'Europa unita.
A questo decalogo di buone intenzioni è però mancata la rivendicazione di una distinzione tra spesa pubblica clientelare e spesa pubblica volta a garantire crescita ed inclusione sociale. In merito all'utopia europeista la costruzione dell'unione economica e quella dell'unione politica hanno viaggiato con due marce diverse e l'effetto è stato quello dello svuotamento progressivo del potere degli stati nazionali e della crescita di poteri tecnocratici sovranazionali privi di qualunque legittimazione democratica. “Ce lo chiede l'Europa” è diventato il mantra col quale legittimare qualunque taglio, qualunque privatizzazione, qualunque restrizione dello stato sociale.
Il fiscal compact che impegna gli stati europei ad inserire il pareggio di bilancio nelle proprie costituzioni entro marzo 2013 è stato il paradossale epilogo di questo racconto: lo svuotamento di potere degli stati nazione li ha resi vulnerabili agli attacchi speculativi ed obbligati a varare misure che sciogliessero il vincolo solidaristico; per rispondere alla crisi che da ciò è scaturita si vincolano costituzionalmente gli stessi stati al pareggio di bilancio, riducendoli ancor più al rango di amministratori di condominio e rendendoli ancora meno autonomi.
Da domani qualunque imprenditore privato potrà indebitarsi con una banca per finanziare una nuova linea di produzione che potrà permettergli di restituire il debito e garantirgli profitti, mentre lo stato italiano no: dovrà spendere ciò che incassa dal prelievo fiscale, rinunciando in tal modo al compito politico per eccellenza, progettare e costruire la società del domani.
Del 17 Aprile 2012 torneremo a parlare quando di fronte alle proteste per tagli alla sanità, all'istruzione, ai trasporti, alla cultura, quando al malcontento per una disoccupazione che non diminuirà con l'abolizione dell'articolo 18 e in assenza di una politica economica (cioè in assenza di investimenti), i governi risponderanno: 'ma non possiamo fare altrimenti, dobbiamo rispettare il pareggio di bilancio'. E a quel punto a sinistra molti si chiederanno 'Pareggio di bilancio? Cos'è 'sta cosa? A quando risale?' e solo allora scopriranno che è stata votata nel silenzio generale, col voto favorevole del Partito Democratico, mentre la maggior parte degli italiani si indignava per gli scandali della casta e guardava al governo tecnico come a una salvezza.

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