Pubblico qui di seguito il mio intervento tenuto in qualità di rappresentante dell'adi Bari durante la discussione sul libro "La furia dei cervelli" di Allegri-Ciccarelli svoltasi a Bari il 10/5/12.
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Vi
ringrazio dell'invito che avete voluto rivolgere all'associazione dei
dottorandi e dei dottori di ricerca italiani di partecipare a questo
dibattito. L'abbiamo subito colto come un'occasione per discutere
della precarietà della nostra condizione non come di una contingenza
risolvibile mantenendo inalterato il contesto all'interno del quale
si colloca, come un accidente dovuto alla cattiveria o l'inefficienza
dell'attuale classe politica, ma come una condizione strutturale di
questi tempi e delle nostre società.
La
quasi totalità dei miei colleghi, me compreso, erano studenti nel
2008, quando l'Occidente è stato scosso da una crisi economica
epocale e in Italia gli studenti tornavano a riempire piazze ed
università contro la legge 133 dell'allora governo Berlusconi e
dell'allora ministro Gelmini. Si trattava di un provvedimento che
tagliava fondi alle Università pubblica avviando un processo di
trasformazione delle stesse in fondazioni di diritto privato. Di
fatto la mobilitazione che da essa partì rivelava un disagio più
profondo, un disagio che quel movimento ha avuto la responsabilità
di non saper mettere a tema, sviluppare consapevolmente. Leggendo il
libro di Ciccarelli e Allegri ho scoperto il riferimento ad un bellissimo intervento tenuto da Sergio Bologna di fronte agli
studenti in mobilitazione a Siena.
Ne
cito alcuni stralci:
“Ciò
che minaccia il vostro futuro non è soltanto il governo della
signora Gelmini ma un pensiero economico bipartisan che non ha mai
saputo né voluto mettere vincoli o imporre regole a una gestione del
sistema finanziario dove nulla ormai assomiglia a un mercato ma tutto
assomiglia a un gioco d’azzardo con i soldi dei lavoratori e della
middle class che vive del proprio lavoro. […] Sono convinto che la
lotta che state conducendo potrebbe essere utile a voi stessi e agli
altri se ne approfittaste per crearvi un vostro sistema di pensiero,
per procurarvi strumenti critici in grado di capire com’è accaduto
quel che è accaduto e quali sono stati i perversi meccanismi che in
questi ultimi vent’anni hanno dominato l’economia, senza che
venissero contestati né da Destra né da Sinistra – a parte
qualche voce isolata di studioso. […] Questa vostra lotta ha un
senso se è un passo in avanti, se diventa atto costitutivo di un
processo di autoformazione.”
E
poi concludeva questo suo intervento dicendo: “Francamente,
se la 133 viene ritirata la vostra condizione di fondo non cambia. E’
questa condizione che dovete cambiare”.
La
situazione dei lavoratori precari, ed anche dei dottorandi e degli
assegnisti di ricerca, che cercano delle ragioni per la loro
condizione rischia di essere quella di Sisifo, costretto ogni qual
volta crede di esser riuscito a portare il masso sul monte a vederlo
ruzzolare nuovamente giù.
Lo
scandalo più grande che riguarda la situazione dei dottorandi
italiani risiede nel fatto che più delle metà di essi, soprattutto
dopo la riforma Gelmini, si trovano a svolgere il dottorato di
ricerca (durante il quale spesso devono mantenere aperti laboratori,
sostituire i docenti a lezione o agli esami etc.) senza ricevere
alcuna borse di studio ed anzi dovendo anche pagare delle tasse. Tale
situazione vive in Puglia una felice anomalia: i dottorandi senza
borsa ricevono una borsa di studio regionale che, al netto delle
tasse, è sostanzialmente equiparata a quella dei colleghi che
ricevono la borsa ministeriale. Ciò ha sanato una condizione che nel
resto d'Italia ha ben poco di sano, generando grandi aspettative tra
i dottorandi pugliesi. La borsa regionale fino a quest'anno che è
stata inserita nello stesso bando di concorso e quindi viene erogata
contestualmente all'inizio del dottorato, veniva erogata anno per
anno tramite il bando Ritorno al futuro a dottorato iniziato. I
dottorandi senza borsa si trovavano così a cominciare il dottorato e
dopo 1 o 2 anni ricevevano la borsa regionale. Si trattava di una
consuetudine, non di una certezza, ma i dottorandi senza borsa
accettavano di cominciare il dottorato fiduciosi di questa
consuetudine. Quando però la Regione ritardava l'erogazione delle
borse ecco che lo smarrimento dei dottorandi cresceva, soprattutto in
virtù del fatto che nel frattempo c'erano affitti da pagare, lavori
serali da svolgere contemporaneamente al dottorato per assicurarsi
una qualche fonte di reddito. Soprattutto ritornava lo spettro di un
incubo: la possibilità di svolgere un lavoro gratuitamente per tre
anni, dovendo anche pagare le tasse. Una condizione che in molti non
avrebbero accettato senza la speranza-fiducia di ricevere la borsa
regionale. L'adi in questo contesto ha portato avanti la trattativa
con la Regione chiedendo conto dei ritardi e cercando di tenere unito
il fronte dei dottorandi. Si sono susseguite affollatissime assemblee
in cui tanti colleghi hanno preso la parola, raccontato la loro
condizione, ipotizzato strade da percorrere per sollecitare la
Regione ad adempiere alle promesse fatte. Quando l'erogazione delle
borse è avvenuta c'è stato poi un generale rompete le righe a cui
la costanza dell'associazione non è riuscita a far fronte cercando
di estendere il discorso a questioni più ampie, cercando di
coinvolgere i colleghi in discussioni sull'ipotesi di abolizione del
valore legale del titolo di studio, sulla questione generazionale
mediterranea lanciata dalla Primavera araba e su altre tematiche di
pubblico interesse.
È
avvenuto in piccolo quello Sergio Bologna paventava, avendo
tragicamente ragione, riguardo l'Onda: si è interpretata un singola
questione come la questione capitale risolta la quale torna la
normalità. E ciò è avvenuto a livello esponenziale perché a
differenze di quanto avvenuto con l'Onda, in questo caso abbiamo
vinto.
Si
rende quindi obbligatorio, onde ricadere in fenomeni di narcisismo
avanguardistico, cercare di capire la condizione del lavoratore
precario al di là facili condanne. Ci siamo chiesti perché così
tanti nostri colleghi tornavano frettolosamente nei laboratori, nelle
biblioteche, negli studi dei professori. Il dramma più grande della
precarietà è la condizione di competizione perenne all'interno
della quale cala il lavoratore con i propri pari. Nel nostro caso un
dottorando sa che se vorrà fare carriera all'interno dell'accademia
dovrà accumulare più titoli dei propri colleghi, dovrà dimostrare
più affidabilità e dedizione di essi. E dovrà farlo nel ristretto
tempo dei tre anni di dottorato. Una volta accettata come normale
questa situazione il tempo da dedicare a mobilitazione collettive e
pratiche cooperative è tempo sottratto alla competizione,
competizione a cui gli altri continuano a dedicarcisi acquisendo un
vantaggio. In questo senso la pedagogia dell'imprenditore di se
stesso e l'ideologia del merito, per quanto azzoppate dalla crisi
resistono ancora ben salde, con un tocco di cinismo in più: se prima
l'idea dominante era 'devo dedicarmi alla mia carriera perché così
verrò premiato e potrò affermarmi' ora è diventata 'visto il
panorama di generale scarsità è bene non perdere nessuna occasione,
non sottrarmi mai alla logica della competizione'.
La
sfida più grande per chi voglia unire il mondo della precarietà sta
tutta in questo duplice fronte: spezzare le catene di questa
percezione di se stessi come monadi in competizione tra loro e, una
volta accettata l'idea che un patto sociale è saltato
definitivamente, pensarne insieme uno nuovo. Nel preparare questo
intervento mi sono posto il problema di come figurarmi il crollo
definitivo del patto sociale fordista, all'interno del quale è stata
pensata l'Università, la pubblica istruzione e la ricerca sulla
quale si sono poi abbattute le riforme dell'ultimo ventennio;
un'Università, una pubblica istruzione ed una ricerca a cui a volte
pensiamo con nostalgia come a un modello a cui tornare. L'ho
immaginato come un muro che crolla, e nel crollo vede sbriciolarsi i
mattoni che lo costituivano. Il problema delle lotte corporative che
non hanno la capacità di farsi lotte politiche, di quelle degli
studenti che chiedono solo il ritiro della 133, dei dottorandi che
chiedono solo il riconoscimento delle borse di studio, dei precari
dell'istruzione che chiedono solo la stabilizzazione, sta nel fatto
che ogni categoria pensa a se stessa come ad un mattone caduto giù
da un muro che per il resto è rimasto lì, intatto, pronto a
riaccoglierlo. Non esiste più quel muro come non esiste più il
patto sociale all'interno del quale ricollocarsi e non esiste più il
mattone, sbriciolato dalla competizione nella quale i singoli
lavoratori sono stati lanciati gli uni contro gli altri.
La
ricostruzione di una soggettività capace di mettere in discussione
gli squilibri del presente deve passare attraverso questo collo
stretto, senza attraversare il quale è impossibile cambiare la
nostra condizione.
1 commento:
Complimenti, bell'intervento. Sono d'accordissimo sul nostro dovere di spezzare una volta per tutte questa arida, cinica e malsana competizione che fa si che intere categorie, importanti come la nostra, rimangano perennemente sfaldate e disunite.
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