sabato 28 agosto 2010

Marchionne al Meeting di Rimini: come vincere facile e senza pudore

da LINKREDULO di Venerdì 27 Agosto 2010 14:24 - http://www.linkredulo.it/opinioni/1383-marchionne-al-meeting-di-rimini-come-vincere-facile-e-senza-pudore.html

Il lungo discorso letto da Marchionne di fronte alla platea del meeting di Rimini ha suscitato grande attenzione sui giornali e nel mondo politico. Il palcoscenico del Meeting ispira ai relatori invitati un tono solenne e riferimenti alle cose ‘grandi’; non a caso chiunque ci salga si sente legittimato ad atteggiarsi a grande intellettuale. Marchionne non è stato da meno ed ha letto il classico discorso che strizza l’occhio all’interlocutore: ha diviso il mondo in due categorie (quella dei disposti al cambiamento e l’umanità attaccata al passato) esaltandone una e disprezzando l’altra ed ha concluso dicendo "sta a voi, che siete belli, giovani, forti ed avete in futuro in mano, scegliere da che parte stare". Inutile dire che la categoria giusta è quella di cui lui si fa interprete e che tutela i suoi interessi. A fianco di una dicotomia promossa Marchionne ne ha bocciata un’altra: quella tra capitale e lavoro. Su nessuna delle due tesi sono d’accordo. Ecco perché.

CAPITALE-LAVORO. Marchionne ha detto che "non è possibile gettare le basi del domani continuando a pensare che ci sia una lotta tra “capitale” e “lavoro”, tra padroni e operai" e poi che "erigere barricate all’interno del nostro sistema alimenta solo una guerra in famiglia". Comincio col ribadire una concetto banale, quasi scontato: se c’è una barricata tra capitale e lavoro non si tratta certo della barricata ideologica issata dai lavoratori ma della scandalosa sproporzione nella distribuzione della ricchezza, ulteriormente accresciutasi con il passare degli anni. Consiste nel fatto che Marchionne può permettersi di far iscrivere i figli alle migliori Università del mondo mentre i tre operai di Melfi potranno tutt’al più provare con fatica e sacrifici a far iscrivere i propri all’Università della Basilicata sperando che questo gli offra un’occasione di riscatto sociale, illudendosi magari di scampare alla prigionia della precarietà. Trovo inoltre stucchevole la metafora della famiglia: un padre non cerca di affamare i figli per aumentare i propri profitti dicendo che lo fa per il loro bene.

Tralasciando queste volgarità, il cambiamento nella dialettica tra capitale e lavoro occorso negli ultimi trent’anni è qualcosa di evidente a tutti, ma ciò non significa che la società occidentale sia diventata più giusta o che sia il tempo di un nuovo patto sociale: è cambiata perché la globalizzazione ha offerto ai grandi gruppi industriali la possibilità di tenere sotto scacco i lavoratori e la politica con la minaccia delle delocalizzazioni. Il risultato lo abbiamo sotto gli occhi: un mercato del lavoro sempre più de-regolamentato e precarizzato ed un dibattito politico in cui si sostiene ormai apertamente la necessità di adeguare salari e tutele agli standard più concorrenziali nel mondo: in soldoni si sostiene la necessità di ridurre entrambi. Il conflitto capitale-lavoro negli ultimi trent’anni ha visto dapprima un’avanzata del primo nel chiedere alla politica meno regole e nel giocare su uno scacchiere non più nazionale a fianco di un ripiegamento del secondo sulle tutele ed i diritti già acquisiti (purtroppo senza comprendere l’urgenza di combattere il capitale con altri mezzi sul nuovo fronte che si stava aprendo) e poi, negli ultimi anni, un aperto attacco del primo anche alle tutele conquistate dal movimento operaio durante il Novecento. Il richiamo di Marchionne, al pari di tutti i richiami alla responsabilità e alla ragionevolezza rivolti ai sindacati, appartiene a questa seconda fase: è infatti un’ulteriore opera di delegittimazione di qualunque tentativo di reazione da parte del mondo del lavoro, additato come unico responsabile di mancanze di produttività ed eventuali delocalizzazioni. Una frase come quella pronunciata da Marchionne ha senso solo se letta all’interno di questo contesto in cui la capacità di iniziativa del mondo del lavoro è annichilita ed il capitale tenta di rimuovere i residuali ostacoli ereditati dal Novecento.

CAMBIAMENTO-PASSATO. Marchionne: "rifiutare il cambiamento a priori significa rifiutare il futuro". Il futuro di cui Marchionne parla declinandolo al singolare è la prosecuzione del cammino cominciato trent’anni fa dalle politiche neo-liberiste di Margareth Tatcher e Ronald Regan, dei cui effetti sul mondo del lavoro ho parlato sopra. Ciò che omette sono innanzi tutto le diverse voci che, soprattutto nell’ultimo decennio, hanno messo in evidenza la pericolosità di lasciare al mercato ed alla finanza l’ultima parola sulle forme di convivenza. Ed inoltre omette, ancor più grave, che la crisi economica del 2008 e la crescente disparità nella distribuzione della ricchezza all’interno delle stesse comunità nazionali hanno avvalorato queste critiche. Rifiutare il modello di sviluppo propugnato da Marchionne non significa quindi essere accecati dal furore ideologico (come egli lascia intendere sprezzante) ed è cosa ben diversa dal rifiutare il futuro: significa rifiutare un certo futuro costruito sulla precarietà senza fine dei nuovi entrati nel mondo del lavoro, sulle mani libere delle aziende e su una spesa sociale ridotta all’osso. Un futuro che non stento a capire perché piaccia tanto a Sergio Marchionne, Emma Marcegaglia, Luca Cordero di Montezemolo, Silvio Berlusconi, Giulio Tremonti etc. Anche in questo caso questa dichiarazione è comprensibile se inserita nel contesto di tempi in cui il dibattito sul futuro, e con esso inevitabilmente la politica, si è eclissato lasciando spazio ad un provvidenzialismo fatalista, tacitamente garante dello status quo. Riaprire la contesa politica è l’unico modo che il mondo del lavoro e la sinistra hanno per uscire dall’angolo in cui sono stati cacciati.

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